martedì, ottobre 16, 2007

di Gabriella Rufi

Yangon Ottobre 2007 – E’ tornata la calma nelle strade di Yangon, quella sensazione di normalità apparente che tanto ama il Governo dittatoriale del Myanmar, l’odierna Birmania. Eppure la parola che fino a tre settimane fa risuonava per le strade del centro, nei monasteri e sulla bocca di tutti era una sola: Democrazia... e libertà da un regime che non ha eguali nel resto del mondo. Per esempio, a confronto della dittatura cubana – storicamente più nota – quella birmana è di gran lunga peggiore, perché più repressiva e sanguinaria. Ai birmani non è concesso il diritto ad una istruzione primaria e all'assistenza sanitaria di base. La popolazione vive nel costante terrore di parlare in pubblico di argomenti legati alla repressione, per paura che qualche spia possa arrestarli. Il governo centrale impone una politica estera di chiusura totale ed impedisce l'intervento di altre nazioni intenzionate a portare aiuti umanitari.

La censura militare è talmente dura che i militari hanno negato e continuano a negare di essere stati vittime del famoso Tzunami di qualche anno fa, per cui hanno rifiutato l'intervento – considerato ‘intromissivo’ - della cooperazione internazionale per le vittime del disastro e per favorire la ricostruzione. Aung Sang Suu Kuy, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader del partito di opposizione LnD (Lega Nazionale per la Democrazia), si trova agli arresti domiciliari da 12 anni. I militari l’hanno rinchiusa solo perché è a capo di un movimento pacifista in opposizione al regime militare.
Nonostante tutto questo, i "Signori" del Governo si sentono legittimati nel loro potere in quanto "rispettosi" delle norme religiose del Buddismo birmano, chiamato Theravada. Secondo questa filosofia, una delle regole più importanti per guadagnarsi una reincarnazione migliore consiste nel fare l'elemosina ai monaci. E' un privilegio assoluto per qualsiasi birmano poter condividere il poco che ha con un monaco ed aiutarlo nel sostentamento del suo fisico e del suo spirito. Ciò assicura a sè e alla propria famiglia una “prossima vita” migliore. L’atto di carità è accompagnato anche da un ringraziamento, non solo del monaco che riceve l’elemosina, ma anche di chi la fa: il monaco viene ringraziato per aver concesso questa opportunità, considerata un passo in più verso il raggiungimento della “perfezione” o nirvana.
I monaci birmani sono gli unici e veri rappresentanti religiosi di tutta la comunità buddista birmana, e proprio da loro è partita la ribellione. Con un gesto semplice ma di grande efficacia i monaci hanno cominciato a rifiutare le offerte, capovolgendo la ciotola per la raccolta di fronte a tutti i militari e ai membri del governo, compiendo così un atto estremo che equivale alla scomunica. Inoltre, consapevoli della loro forza, hanno cominciato a marciare ogni giorno per rivendicare il diritto di tutti alla democrazia.
Questa rivoluzione, portata avanti con coraggio e tenacia dai monaci e appoggiata dal popolo per due settimane, è stata ferocemente repressa dal governo centrale come già successe nel precedente tentativo di ribellione nel 1988. In un primo momento è stato imposto un coprifuoco serale, successivamente sono iniziati gli scontri per le strade. Le morti tra i civili sono state numerose ma il Governo centrale - come era prevedibile - nasconde l’esatto numero delle vittime. Inoltre moltissimi religiosi sono stati catturati e deportati in lager nascosti nella giungla.
Ibrahim Gambari, inviato speciale dell’ONU, è riuscito con non poche difficoltà ad incontrare il Generale Tan Swe, capo del Governo e della Giunta militare, per chiedere la fine delle ostilità e la ripresa di un dialogo con la leader dell’opposizione Sang Suu Kuy. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea invocano pesanti sanzioni contro il governo birmano, mirando ad imporre un embargo sulle importazioni delle materie prime. Gli interessi in gioco però sono alti e Cina e Russia, i maggiori fornitori di merci al Myanmar, si oppongono. E mentre le grandi forze democratiche mondiali si riuniscono per decidere se sia conveniente o meno portare un po’ di libertà ad un popolo dimenticato, il governo inasprisce il regime: Internet, che già era parzialmente censurata, è stata completamente “chiusa” per evitare la fuga di notizie e immagini; i visti per l’ingresso vengono emessi con il contagocce, impedendo così quel poco di interscambio e di commercio derivante dal turismo.
«Loro hanno le armi, noi solo la nostra disperazione» sono le amare parole di chi è riuscito a parlare con i giornalisti, oltrepassando il confine e rifugiandosi in Tailandia.
La dittatura di Tan Swe è un reato contro l’umanità, ma finora non è mai interessata a nessuno, nemmeno a coloro che mostrano con orgoglio la medaglia di paladini della Democrazia. Conoscere e divulgare le poche informazioni che trapelano da questo paese lontano e oppresso, equivale, nel nostro piccolo, a rovesciare la ciotola delle offerte e a camminare a fianco dei monaci, sfilando pacificamente per rivendicare il diritto fondamentale di ogni essere umano: la libertà. Non lasciamoli soli.

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