sabato, ottobre 13, 2007

di Padre Marco Pasquali
(Padri Passionisti)

Ricordo ancora la marcia per la pace del 15 febbraio 2004, quando un imponente corteo percorreva le strade di Roma, per scongiurare l’intervento armato in Iraq; qui giovani e meno giovani, appartenenti ad ogni estrazione sociale e credo, facevano risuonare nell’aria slogan come: “La pace non è la meta, ma una strada”, ma passato lo stupore iniziale mi balenò alla mente un interrogativo che mi fece spegnere un po’ il sorriso: “Si sta davvero promuovendo la cultura della pace o difendendo uno stile di vita?”.

La nostra preoccupazione è quella di promuovere una cultura del rispetto dei diritti di ogni uomo1 o ci si preoccupa dell’incrinarsi di un equilibrio internazionale che, per effetto domino, rischia di alterare i privilegi di cui noi occidentali godiamo? Anche se questi interrogativi restano senza una risposta definitiva, vale la pena gettare uno sguardo su cosa è veramente cultura occidentale le cui radici affondano nel cristianesimo, da difendere, promuovere e farne parte.

La cultura per il cristiano è comunione nell’amore
La cultura è in realtà il tessuto stesso della comunicazione, dato che si tratta dell'intreccio dei valori e dei significati in cui un gruppo si riconosce, comunica, vive, crea. Su questa scia, si può dire che la cultura testimonia la vittoria sulla frantumazione, sulla separazione e sull'isolamento. Nasce dunque da una urgenza interiore che spinge l'uomo a cercare l'altro e a comunicare con lui. La cultura nasce dall'incontro e rimane una nobile testimonianza che l'incontro è più forte del conflitto. Al centro dell'evento cultura c'è dunque un'energia, una forza reale che muove l'uomo verso l'altro. Questa forza è così reale e assoluta che può essere anche chiamata "amore". In questo senso, la cultura ha in sé una dimensione spirituale, aperta alla salvezza, sperimentabile tutte le volte che ci lasciamo muovere da questa forza altruista, comunionale, comunicativa. È una forza, che alla maniera dell'amore, convince l'intelligenza umana che l'io si salverà sacrificando le tendenze di chiusura, di autoaffermazione e di isolamento. L’amore per il cristiano ha un solo volto: quello del crocifisso; questo amore, che abbiamo visto essere il senso della cultura, ci spinge alla comunicazione, e per questo è creativo: inventa linguaggi, gesti, espressioni, segni, simboli, non si intimidisce, non si riesce ad azzittirlo, non si riesce neanche ad ucciderlo. L'amore vive infatti in modo pasquale, cioè tramite la morte e la risurrezione2.

La sclerosi della cultura occidentale
Ma questo amore, che dovrebbe animare e sostenere le radici della nostra cultura, è minato nelle sue radici dal peccato si è insinuato nella mentalità dell’uomo occidentale: il peccato riesce a convincere l'uomo che l'opera di Cristo, la sua pasqua, non è un motivo sufficiente per vivere la mia pasqua. Il peccato riesce a far vedere che la grazia di Dio, il rapporto d’amore con Lui, è solo un accessorio, non affatto indispensabile, per cui l'uomo può e deve da solo procurarsi il necessario per salvarsi. L'inganno più grande del peccato è esattamente convincere l'uomo che è sufficiente sapere che cosa fare per salvarsi per farlo di conseguenza. Questo è di fatto un attacco contro lo Spirito Santo, poiché la sua opera consiste nel rendere presente in ogni battezzato l'evento della pasqua di Cristo3. Così l’uomo, senza la relazione con Dio, tende a chiudersi entro le mura di quello che è il suo creare.

Questa tentazione prende piede in un Occidente malato di “sclerosi culturale”: questa si contrae quando i membri di un determinato gruppo culturale si innamorano in modo narcisistico della propria cultura e sono assorbiti nella propria espressione culturale, nella propria creazione. Una cultura del genere cessa di essere tessuto della comunicazione e diventa piuttosto una chiusura, un muro di separazione: finendo per prestare attenzione a ciò che i membri di questo gruppo hanno prodotto, si sono staccati dalla fonte e non hanno più quella forza che li ha spinti alla creazione di tanti prodotti culturali per comunicare, e perciò non sono neanche in grado di rinunciare a ciò che hanno creato a favore della comunicazione a cui sono chiamati oggi, per la comunione4.

Il “martirio” è l’icona dell’amore
L’unica realtà in grado di svegliare l’Occidente, chiuso nelle sue narcisistiche certezze e di attivare questa forza propulsiva dell’amore, anima della cultura, è ciò che sempre è stato nel cuore della tradizione cristiana: il martirio. Essere martiri significa primariamente essere vivi ed autentici testimoni, a dispetto di qualunque possibile rifiuto: il martire è fecondo anzitutto in cielo, ma prima o poi la sua fecondità affiora nella storia e dal suo sangue scaturiscono anche una grande teologia e una vita più ricca per la Chiesa ancora sulla terra. Il martire non ha più la possibilità di parlare del mistero della Chiesa, di spiegare il Dio trino in cui crede e alla cui vita partecipa, non può spiegare Cristo. Perciò lo fa vedere. Si consegna nelle mani di chi non lo capisce o non lo vuole capire. Ad un certo momento il martire constata l'insufficienza delle parole, dei termini, del linguaggio e, consegnandosi nelle mani di chi lo perseguita, rende se stesso icona di Cristo, e dunque una rivelazione, una presenza di Cristo nella storia. Con questo gesto, in qualche modo muore alla sua cultura, al suo apparato linguistico, terminologico, nozionistico, perché non gli serve più per poter comunicare Cristo. Ma, nella forza interiore di non rompere la comunione, si affida come Cristo al Padre e ai banditi che sono venuti a prenderlo nel Getsemani. Un solo affidamento: le mani del Padre che in quel momento Cristo sperimenta come le mani dei briganti e dei soldati. Il cielo e la terra si toccano in un unico atto d'amore. Cristo ha chiuso gli occhi sulla croce senza poter vedere un risultato palpabile della sua predicazione. Ma la sua parola e la sua opera redentrice risuscitano nei battezzati attraverso tutta la storia. Allo stesso modo anche il martire ed ogni cristiano che vive un martirio spirituale nel dialogo con le culture. Il dialogo tra le culture non è una questione astratta, teorica, ma passa per l'incontro tra le persone, che si realizza sempre in un modo pasquale5.

Lo abbiamo visto recentemente nell’assassinio di suor Leonella Sgorbati, una religiosa di 66 anni delle Missionarie della Consolata, uccisa da due uomini armati che hanno aperto il fuoco colpendola almeno quattro volte alle spalle. La religiosa è morta invocando il perdono per i suoi assassini, ma questa sua testimonianza è sbocciata da una vita quotidianamente spesa a rendere concreto l’Amore di Dio per tutte le sue creature, tanto da coinvolgere nel dono di sé un’altra persona: Mohamed Mahamud, la guardia del corpo uccisa mentre correva in aiuto alla religiosa. Egli è la prova che esiste un islam col quale non solo si può dialogare, ma provare a costruire un mondo diverso. La sua è stata un’offerta autentica, di segno diametralmente opposto a quella dei blasfemi che si fanno chiamare martiri, che si immolano imbottiti di tritolo per le vie di Gerusalemme, Tel Aviv, Baghdad. Il gesto di Mohamed Mahamud scomunica l’islam violento e fondamentalista, che miete vittime e semina terrore. Del resto, un altro islam esiste e ha il volto della gente comune, la stessa che ha pianto per Annalena Tonelli dopo la sua uccisione in Somalia. È gente che vuole la pace, che crede al dialogo della vita, che cerca di isolare gli estremisti. Come accadde sette anni prima, quando suor Marzia, una consorella di Leonella, fu rapita per tre giorni e furono le mamme che andavano all’ospedale a ottenerne la liberazione, circondando la casa dei rapitori6.

Nel martirio di queste persone si è resa visibile lo stesso amore di Cristo, come una forza tale da creare legami più forti della morte stessa. Questa è la vera cultura che si apre all’altro riconoscendolo come degno di amore e di accoglienza e che a buon diritto possiamo sentirla come nostra: una cultura che non esclude nessuno, ma che al contrario ha la pretesa di abbracciare tutti “affinché Dio sia tutto in tutti.” (1Cor 15,28). Ma finché resteremo al di qua delle certezze che l’occidente opulento ha eretto intorno alla nostra coscienza, tenderemo a vanificare la pasqua di Cristo cercando una “nostra” salvezza, che non passa per il Golgota, ma che resta all’interno della città a celebrare i propri idoli.

1In questione c’era il diritto di sovranità di uno stato legittimo
2Cfr. M. I. Rupnik, La pasqua della cultura in T. Spidlik, M. I. Rupnik, Teologia pastorale a partire dalla bellezza, Lipa, Roma 2005, pp. 434-435.
3Cfr. M. I. Rupnik, Il discernimento, Lipa, Roma 2004, p. 49.
4Cfr. M. I. Rupnik, La pasqua della cultura …, pp. 443-446.
5Cfr. Ibidem, pp. 436-437.
6Cfr. Gerolamo Fazzini I destini incrociati di suor Leonella e Mohamed in www.pimemilano.com



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