lunedì, ottobre 22, 2007
di Raffaella Serini, giornalista

Haiti è una repubblica di bambini, ma uno su tre non arriva a compiere cinque anni. In un paese dove l’aspettativa di vita è di mezzo secolo, l’età media degli otto milioni di abitanti (due concentrati nella capitale Port-au-Prince) è di soli sedici anni. L’80% della popolazione vive – anzi, sopravvive – con meno di un dollaro al giorno, lottando contro fame, malattie, violenza e calamità naturali. È lo stato più povero d’Occidente, un pezzo d’Africa nel mar dei Carabi, che però, con gli altri stati del Centroamerica, ha in comune solo i coloratissimi murales.
L’aeoroporto di Port-au-Prince, tranquillo, pulito e ordinato, è un limbo di passaggio che precede l’inferno. Un inferno fatto di caldo e polvere, odore di frutta marcia, fogna e immondizia bruciata, di vie sterrate senza nome, ricoperte di rifiuti e bancarelle, su cui scorre, incessante, un flusso caotico di uomini, donne, bambini alla ricerca di cibo e acqua, carrette di legno, auto, camioncini e animali.

Il mio «Virgilio» si chiama padre Richard Frechette (qui conosciuto semplicemente come padre Rick), sacerdote americano di 54 anni, un metro e 80 cm di pragmatismo e forza, fisica e spirituale. Vive a (e per) Haiti da più di vent’anni: arriva nel 1986 a servizio di NPH, Nuestros Pequeños Hermanos, «Nostri piccoli fratelli», un’organizzazione internazionale fondata nel ’54 da padre William B. Wasson e che da allora si dedica ai bambini poveri dell’America Latina. Per alcuni anni padre Rick assiste i bambini in fin di vita. Ma tanti, troppi gli muoiono ogni giorno tra le braccia senza che lui possa fare niente per aiutarli. Così decide di rientrare negli Stati Uniti, laurearsi in Chirurgia e tornare a lavorare nel piccolo stato afro-caraibico anche come medico. Salute e istruzione sono i fronti in cui è impegnato ancora oggi: gestisce un orfanotrofio, che, a Kenscoff (40 km a nord di Port-au-Prince), accoglie 600 bambini, una clinica mobile che presta soccorso negli slums, un ospedale pediatrico a Tabarre, alle porte della città e diciassette scuole di strada per tremila piccoli allievi, situate nei punti più critici della capitale, tra i tuguri di lamiere arrugginite di Wharf Jeremy, a ridosso del porto, e di Cité Soleil, la baraccopoli più grande, un nome che sa di beffa, visto che qui persino la luce del sole pare più sfocata.

È grazie a lui che riusciamo a entrare in queste zone, le più degradate e pericolose della città, dove pure i caschi blu delle Nazioni Unite hanno difficoltà a muoversi. Ad Haiti l’Onu è impegnato nella missione di stabilizzazione Minustah dal 2004, anno in cui nel paese è scoppiata una guerra civile che ha portato alle dimissioni e all’esilio dell’allora presidente Jean Bertrand Aristide. Sono seguiti due anni di governo ad interim (dal 2006 René Prèval è il nuovo presidente), in cui a regnare sono stati caos e anarchia: le bande armate hanno occupato intere aree della città, uccidendo (circa 8mila gli omicidi) e compiendo stupri (almeno 35 mila) e sequestri, in un’escalation di violenza che ha portato, nel dicembre 2006, al rapimento di almeno 200 bambini(molti vennero poi uccisi).

Da allora, anche per la pressione esercitata da una popolazione ormai esasperata, governo e caschi blu hanno intensificato la lotta alle gang. Nei mesi successivi molte sono state disarmate e i loro capi arrestati. «La situazione oggi è più stabile, ma sempre pericolosa», racconta il generale brasiliano Carlos Alberto Dos Santa Cruz, subentrato al comando del contingente Onu all’inizio del 2007. «Le bande - spiega padre Rick – ora anziché le armi da fuoco usano coltello e machete e i loro leader continuano a impartire ordini dalla prigione col telefonino».

Ma Padre Rick non si tocca. Nei suoi occhi verdi e nelle sue spalle larghe pure i capi gang scorgono la possibilità di un riscatto, se non per se stessi almeno per i loro (numerosi) fratelli più piccoli.

Ecco perché, un paio d’anni fa, appena i due ragazzi che tentarono di rapirlo (senza averlo riconosciuto) si resero conto di chi fosse, lo pregarono di non rivelare niente al loro boss. Sapevano a cosa andavano incontro: un mese prima, un uomo che aveva rubato un pulmino Nph venne poi sgozzato.

Il primo giro di perlustrazione negli slums è davvero una discesa agli inferi. Padre Rick continua a ripetere: “Ciò che andremo a vedere adesso è ancora peggio”. E ha ragione: è sempre peggio. A Wharf Jeremy, l’ultimo «stadio», la miseria è inquietante oltre ogni aspettativa. Non un filo d’erba, un fiore. Intorno tutto è grigio, pure i maiali che rovistano tra i rifiuti ai bordi delle strade, in mezzo al fango e ai liquami. L’odore è nauseabondo, e in qualche occasione temo di non reggere. Eppure, io non lo posso sapere, né immaginare come si possa vivere così. I miei occhi sono quelli di una persona comunque consapevole che presto il “suo” orrore finirà, e che già a sera potrà la(e)varselo di dosso. Immagino sia la stessa cosa che provino a fare anche loro, i poveri di Haiti, lavando di continuo i panni per strada, come se così cercassero disperatamente una dignità.

Ci si sente a disagio a camminare in mezzo a quegli sguardi smarriti, con le scarpe che affondano nel terreno, mentre i bambini che si radunano attorno le scarpe neanche ce l’hanno. A frotte, al grido di «Hei you», ci corrono incontro: vogliono toccarci, verificare che siamo fatti come loro, anche se così diversi. Alcuni ci chiedono una cicca, altri una foto. Qualcuno un dollaro. Una giovane mamma mi si avvicina col figlio in braccio e me lo porge: capisco che mi sta chiedendo di prenderlo e portarlo via, in un qualunque altro angolo di mondo dove sia almeno concesso sperare. È il futuro che manca qui, più d’ogni altra cosa. Ed è paradossale che i più fortunati siano gli orfani di Kenscoff, un luogo, a dispetto d’ogni clichè, di gioia e speranza.

Ogni donna qui ha almeno tre figli, quasi mai dallo stesso uomo. Secondo suor Cristina (che insieme a suor Marcella affianca da sei mesi padre Rick), «il sesso è per questa gente l’unico piacere possibile, vissuto quasi esclusivamente d’istinto». L’HIV dilaga e uccide, ma la situazione non è monitorata e non esistono stime. Si partorisce in casa e di parto si muore. I figli «di nessuno» aumentano. Fare bambini è come sfidare la vita, ma difficilmente si vince. Lo dimostra il tasso degli abbandoni, altissimo: bambini senza nome condannati a vivere per strada, e in strada morire. Anche le sepolture sono un problema. I cadaveri raccolti dalle strade sono portati in un ospedale pubblico, dove vengono ammassati in stanze in attesa di essere prelevati e, fino a qualche tempo fa, gettati in fosse comuni. Oggi a loro provvede padre Rick: ogni giovedì va a prenderli, li ripone in piccole bare di cartone e va a seppellirli tra le montagne, restituendo loro una dignità. «È il momento più triste della settimana – confessa a denti stretti – l’unico in cui fumo una sigaretta e butto giù un bicchierino di rum».

E poi ci sono i restavèk, i bambini schiavi, quelli mandati dai genitori a lavorare nelle famiglie più ricche, sperando che possano trovare un’esistenza più serena, e dove invece trovano solo abusi, anche fisici, e sfruttamento. Molti lavorano ininterrottamente 14-15 ore al giorno e sono costretti a dormire, per quel po’ di tempo, sul pavimento in cucina.

Di tutto quest’orrore chiedo a padre Rick quale sia la cosa più difficile da sopportare: «Non vedere mai la fine». Ma aggiunge: «L’immaginazione unita all’amore, però, può fare grandi cose».

Fondazione Francesca Rava:

L’organizzazione N.P.H. è rappresentata in Italia dalla Fondazione Francesca Rava (tel: 02 54122917), che dal 2003 sostiene i progetti di padre Rick Frechette in Haiti. Quest’anno il Nescafé Street Art Project ha deciso di aiutare la fondazione Rava per sostenere le scuole di strada: per raccogliere fondi, da fine novembre sul sito http://www.nescafe.it/ saranno in vendita tazze personalizzate da un artista dell’associazione Art Kitchen di Milano, il cui ricavato – interamente devoluto all’associazione – permetterà a 700 bambini di frequentare la scuola per un anno.

Sono presenti 2 commenti

KAY LA ha detto...

Le opere missionarie di suor Marcella sono sostenute inItalia dalla ASSOCIAZIONE KAY LA - AMICI DI SUOR MARCELLA ONLUS.
Il programma "UNA SPERANZA PER JOB" nel quale suor Marcella è impegnata ha come scopo salvare la vita ai bambini in stato grave di malnutrizione.
Per informazioni e contatti:
info@associazionekayla.org

Anonimo ha detto...

il sito è http://www.associazionekayla.org/

Grazie

Davide

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