venerdì, novembre 09, 2007
di Fabio Vitucci

La lettera inviata ad ottobre da 138 personalità islamiche al papa e ai capi cristiani è un grande passo verso il dialogo tra le due religioni. La lettera è il prolungamento di quella inviata un anno fa a Benedetto XVI, in risposta al suo discorso magistrale all’università di Regensburg (che creò tante polemiche). Per la pubblicazione è stata infatti scelta la stessa data (13 ottobre), che quest’anno fra l'altro coincideva con la fine del Ramadan. I firmatari sono aumentati notevolmente rispetto all’anno scorso, e questa è la nota più importante: da 38 si è passati a 138, in rappresentanza di 43 nazioni. Ci sono dei gran mufti (cioè capi di fatwa in un Paese), dei responsabili religiosi, degli studiosi e dei privati.
Fra i firmatari, oltre a rappresentanti dei due grandi gruppi sunniti e sciiti, abbiamo anche rappresentanti di gruppi più piccoli, di sette e perfino di tendenze divergenti, per esempio la tendenza più mistica (sufi), in maggioranza occidentalei. Vi sono ismailiti, che sono una derivazione degli sciiti; giafariti, anch’essi una deviazione dallo sciismo; ribaditi, che è un vecchio gruppo dell’islam, di cui non si parla molto, ma che ha un rappresentante nello Yemen.
Ciò indica un allargamento del consenso da parte di un certo ambiente islamico, un passo verso ciò che l’islam chiama l’ijmaa (consenso). Nella tradizione islamica ogni punto della fede si fonda su tre fonti: il Corano, la tradizione muhammadiana (hadith ossia detti, e vita di Maometto) e il consenso della comunità, appunto l’ijmaa. Questo terzo passo finora non è mai stato molto valorizzato, anzi...
Questa lettera non dice che vi è accordo tra tutti i musulmani, ma mostra che si va verso un certo consenso. Questa convergenza è avvenuta sotto l’egida del re di Giordania e della fondazione Aal al-Bayt (cioè la Famiglia del Profeta dell’islam), guidata dallo zio del re, il Principe Hassan. Quest’uomo rappresenta forse quanto di meglio oggi esiste nell’Islam, dal punto di vista della riflessione, dell’apertura e anche della devozione. Pur essendo un musulmano credente e devoto, egli è sposato a una donna indù che – fatto insolito nell’Islam attuale - non ha dovuto convertirsi all’islam, cosa che invece viene richiesto alle cristiane oggi in Occidente, ma che non è previsto per nulla dal Corano.
Il primo punto positivo della lettera è perciò la sua rappresentatività, il suo provenire da un gruppo convergente. La lettera è rappresentativa anche perché è inviata a tutto il mondo cristiano. Se si prende l’elenco dei destinatari, abbiamo un quadro molto completo e accurato: oltre al papa, abbiamo tutte le tradizioni dell’Oriente cristiano, i patriarchi delle Chiese calcedoniane e pre-calcedoniane; poi le Chiese protestanti e infine il Consiglio mondiale delle Chiese. Il che mostra che dietro questa lettera vi è qualcuno che conosce bene il cristianesimo e la storia della Chiesa.

I - La struttura - Venendo al contenuto, risalta il fatto che il titolo è preso dal Corano: “Una parola comune tra noi e voi” (Sura della famiglia di Imran, 3:64). Questo è ciò che nel Corano Maometto dice ai cristiani: quando vede che non riesce a mettersi d’accordo con loro, allora dice: Venite, accordiamoci almeno su una cosa comune: che non adoriamo che un solo Dio (cioè sull’unicità divina) “e che non prenderemo alcuni di noi come padroni all’infuori di Dio”.
La struttura della lettera comprende tre parti: la prima è intitolata “L’amore di Dio”, suddivisa in due sottoparti, “L’amore di Dio nell’Islam” e “L’amore di Dio come primo e più grande comandamento nella Bibbia”. In realtà, il titolo arabo originale è più preciso: dice “nel Vangelo”. Mettere la parola “Bibbia” (che comprende l’Antico e il Nuovo Testamento) permette di integrare in questo discorso anche il giudaismo (sebbene la lettera sia indirizzata solo ai cristiani). La seconda parte è intitolata “L’amore per il prossimo” (hubb al-jâr). Anche qui si divide in due sezioni: «L’amore per il prossimo nell’Islam» e «L’amore per il prossimo nella Bibbia». Di nuovo, l’originale arabo dice “nel Vangelo”.
La terza parte conclude riprendendo la citazione coranica: “Venite a una parola comune tra noi e voi”, e offre un’analisi interessante in tre parti: “Parola comune”, “Venite a una parola comune” e “Tra noi e voi”.

II - Qualche riflessione sul contenuto - Vi è una continuità fra la prima lettera di un anno fa e questa: la prima si concludeva con la necessità di arrivare a mettersi d’accordo partendo dall’amore di Dio e del prossimo, con questa i dotti vogliono sottolineare l'impegno a realizzare ciò che avevamo annunciato come fondamento della relazione tra islam e cristianesimo.
È interessante notare che il vocabolario utilizzato è un vocabolario cristiano, non musulmano. La parola “prossimo” non esiste nel Corano; è tipica del Nuovo Testamento. Di fatti, il testo arabo non dice “prossimo” ma “vicino” (jâr), che non può avere che il senso geografico (come il vicino di casa), a differenza del termine cristiano qarîb, che significa “il prossimo”. La parola “amore” è usata nel Corano poche volte; addirittura, essa non fa parte dei nomi di Dio: non si dice mai che Dio è l’amante, anche se vi sono alcuni sinonimi meno forti. La parola è invece largamente utilizzata nel cristianesimo. E infatti se si analizza la prima parte, quella sull’amore di Dio secondo l’Islam, noi cristiani lo chiameremmo piuttosto “obbedienza a Dio”, non “amore”. Ma qui essi lo chiamano così per adeguarsi al vocabolario cristiano. Il che è bello, ma un po’ pericoloso perché rischia di essere un gioco di “concordismo”. Di solito i musulmani parlano dell’adorazione di Dio, di riconoscere l’unicità di Dio; ma il tema dell’amore di Dio è tutto un altro discorso, che non è escluso dall’Islam, ma si trova abbondantemente nel mondo dei sufi.
Ad ogni modo, in questa lettera, parlare di “amore di Dio” rappresenta una novità. Forse è anche un modo abile di riferirsi alla prima enciclica del papa Benedetto, “Dio è amore” (Deus caritas est). In ogni caso, c’è il desiderio di avvicinarsi al vocabolario cristiano, anche se nello stesso tempo c’è il rischio di voler intendere cose diverse con una stessa parola.
In questo contesto, la versione araba della lettera usa una terminologia diversa rispetto a quella francese o italiana o inglese. Abbiamo già notato il fatto che, laddove l’arabo parla del Vangelo, le lingue occidentali parlano della Bibbia.
Ad esempio: parlando di Cristo, nelle versioni occidentali si cita sempre “Gesù Cristo”. Nella versione araba si dice “Issa al-Massih”. Tale espressione non è coranica, ma è l’unità fra il modo in cui i musulmani chiamano Gesù (Issa) – i cristiani arabi lo chiamano “Jasua” – e la definizione cristiana di “al-Massih”, Cristo, che si trova nel Corano. L’espressione coranica è “Al-Massih Issa Ibn Mariam” (Il Messia Issa figlio di Maria), mentre l’espressione cristiana abituale è “Jasu’ al-Massih” (Gesù Cristo). Il testo della lettera intreccia espressioni coraniche con espressioni cristiane.
Quando essi citano Corano e Bibbia, usano due metri diversi. Citando il Corano essi dicono “ha detto Dio”, come ogni buon musulmano. Quando citano versetti della Bibbia, essi dicono solo “come si trova nel Nuovo Testamento”, “come si legge nel Vangelo”, ecc… Il che vuol dire che essi usano, per la Bibbia, un discorso da studioso, più scientifico, mentre per il Corano essi usano una terminologia non scientifica, ma da credente islamico.
Comunque grazie a questa lettera, d’ora in poi potremo dire che cristianesimo, ebraismo e islam hanno come cuore della fede l’amore di Dio e del prossimo. Questa è una vera novità, mai detta prima nel mondo islamico.

Uso della Bibbia - Nelle citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, essi danno per assodato che quella della Bibbia è parola di Dio. Anche questa è una novità relativa. Nel Corano questa idea è affermata teoricamente, ma essa è rigettata nella pratica. Molto spesso i musulmani considerano la Bibbia come un prodotto manipolato (muharrafah o mubaddalah) attraverso aggiunte posteriori a un nucleo originario.
Addirittura, i 138 citano in modo esplicito san Paolo a proposito della nozione di “cuore”. In una usanza molto diffusa fra i musulmani, san Paolo viene rigettato, anzi viene considerato il traditore del messaggio di Gesù Cristo, che secondo loro avrebbe dato “un messaggio islamico”. Spesso i musulmani dicono che il messaggio di Cristo era come quello del Corano, ma che Paolo ha introdotto la Trinità, la Redenzione per la Croce e il rigetto della Legge mosaica. Un famoso libro anti-cristiano, pubblicato nel 2000 e vietato in Libano, s’intitola “Togliete il velo da Paolo”!
Tutti questi piccoli segni mostrano un sincero sforzo di dialogo a livello del linguaggio e delle testimonianze bibliche. Vi sono anche piccole allusioni all’ebraismo, per integrarlo in questa visione. Usando per esempio il termine “la gente della Scrittura”, è chiaro che si vuole parlare anche degli ebrei, anche se il discorso è ufficialmente indirizzato ai cristiani.

III. Apprezzamento positivo e lettura critica - Cerchiamo di vedere ora altri aspetti positivi di questo documento, segnalando anche le lacune e gli elementi che necessitano una riflessione più approfondita.
Venendo al contenuto, l’impressione è che, rimanendo a questo livello, sia facile mettersi d’accordo. Il metodo usato è di scegliere brani dei testi sacri che possano essere messi in parallelo. Nel Corano vi sono testi in contraddizione con il cristianesimo, ma loro hanno fatto la scelta di privilegiare quelli più simili e vicini. È un passo importante, ma se rimaniamo solo a questo livello, improntiamo un dialogo basato sull’ambiguità. In ogni modo, come primo passo, è utile mettere in rilievo un fondamento comune.
Anche nella tradizione cristiana c’è la ricerca di un fondamento comune con le altre religioni, anzi con tutte le culture. Tale fondamento, dal punto di vista cristiano, non si basa sul Corano e sulla Bibbia, perché questo escluderebbe i non credenti. Il fondamento comune è la legge naturale, il Decalogo visto come legge naturale, un’etica comune accettata anche dagli atei.
In un discorso del 5 ottobre scorso, rivolto alla Commissione Teologica internazionale, il Papa ha parlato della legge morale naturale, per “giustificare e illustrare i fondamenti di un’etica universale appartenente al grande patrimonio della sapienza umana, che in qualche modo costituisce una partecipazione della creatura razionale alla legge eterna di Dio”. Benedetto XVI continua poi riferendosi al Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1955): La vita morale “ha come perno l'aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell'altro come uguale a se stesso”. Il Decalogo è “legge naturale” e non rivelata in senso stretto.
Il pontefice continua dicendo che partendo dalla legge naturale, “di per sé accessibile ad ogni creatura razionale, si pone con essa la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini di buon volontà e più in generale con la società civile e secolare”.
Come i firmatari della Lettera, il Papa sta cercando in tutti i modi di trovare un fondamento comune al dialogo, al dialogo con tutti; questo fondamento non può essere la Scrittura, ma è l’etica universale fondata sul diritto naturale.
La lettera inviata dagli esperti musulmani ai cristiani si ferma a ciò che è comune nella Bibbia e nel Corano. Il passo seguente dovrebbe essere quello di trovare fra cristiani e musulmani un fondamento più universale. Questo includerebbe alcuni elementi delle Scritture religiose, purché accettabili da tutti; ma dovrebbe andare oltre, trovando i fondamenti di un dialogo universale.
Questa è una lacuna della lettera, che tenta solo di riannodare i rapporti fra cristiani e musulmani. Lo si dice con chiarezza nell’introduzione, ricordando che “insieme noi rappresentiamo il 55% della popolazione mondiale”. Dunque mettendoci d’accordo potremo quasi imporre la pace al mondo. E’ un approccio "politico". Bisogna andare verso fondamenti razionali della pace, nella verità.
Per questo, come ha detto il card. Tauran, il testo è interessante, apre alcune strade nuove nel metodo e nel contenuto, ma ha bisogno di essere approfondito per renderlo più oggettivo e non selettivo, per renderlo più universale, e meno politico.
Da questo punto di vista, bisogna aggiungere un’ulteriore piccola critica. La lettera ad un certo punto chiede ai cristiani di “considerare i musulmani non contro di loro, ma con loro, a condizione che i cristiani non dichiarino la guerra”. Qui essi alludono forse ai problemi della Palestina, dell’Iraq, dell’Afghanistan… Ma lì non sono i cristiani come tali che sono impegnati nella guerra.
Gli americani in Iraq (se a questo si riferisce la lettera) non sono in Iraq come cristiani che opprimono i musulmani: non c’entra né l’elemento cristiano, né quello musulmano. Si tratta di una questione politica fra gli Stati Uniti e i Paesi del Medio Oriente. E anche se sappiamo che il presidente degli Stati Uniti è cristiano e che la sua fede lo guida, non si puo’ assolutamente affermare che è una guerra dei cristiani contro i musulmani.
Questo punto è importante perché i musulmani tendono a vedere nell’Occidente una potenza cristiana, senza rendersi conto fino a che punto l’Occidente è secolarizzato e lontano dall’etica cristiana. Questo modo di pensare rinforza la teoria dello scontro di culture (o di religioni), proprio al momento che si cerca di combattere tale teoria!

Una bella conclusione: convivenza nella diversità - Nella lettera si cita il versetto coranico sulla tolleranza: “Se Dio l’avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Ma ha voluto provarvi con l’uso che farete di quello che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone; voi tutti ritornerete a Dio ed Egli vi informerà a proposito delle cose su cui siete discordi” (Sura della tavola imbandita, n. 5:48).
Questa sura è la penultima in ordine cronologico del Corano. Ciò significa che questa sura non può essere stata cancellata o superata da un’altra, secondo la teoria islamica dell’interpretazione coranica, detta dell’abrogante e dell’abrogato (nâsikh wa-l-mansûkh). Questo versetto è fondamentale perché dice che le nostre diversità religiose sono volute da Dio. La conseguenza è: “gareggiate nelle opere buone” come modo di dialogare. Questa è davvero una bella scelta da parte loro per concludere la loro Lettera, perché significa che possiamo convivere malgrado le nostre diversità, anzi che Dio ha voluto questa diversità!
Questa Lettera è un primo passo nel dialogo tra cristiano e musulmano. Spesso i cristiani hanno preso delle iniziative di dialogo; ora per la prima volta sono i mussulmani a prendere l’iniziativa, e l’hanno fatto bene. È importante che questi primi passi continuino nella direzione di una maggiore chiarezza, anche mostrando differenze e necessità di correzioni. Siccome la Lettera è indirizzata a varie responsabili del mondo cristiano, si può sperare che ci sarà una risposta a questa lettera, che è costata un immenso sforzo da parte musulmana.
Ma questa Lettera è certamente indirizzata anche ai musulmani, anche se non è detto esplicitamente. Che peso avrà nel mondo islamico, mentre continuano le notizie di rapimenti di sacerdoti, persecuzione di apostati, oppressione dei cristiani? Finora non vi è stato alcun commento da parte islamica. Ma penso che col tempo questo documento potrà creare un allargamento e una convergenza maggiore.
Soprattutto, c’è da sperare che il prossimo passo sarà il dialogo sulle questioni più sensibili della libertà religiosa, del valore assoluto dei diritti umani, del rapporto tra religione e società, dell’uso della violenza, insomma delle questioni attuale che preoccupano tanto il mondo musulmano (e direi in primo luogo i musulmani) quanto il mondo occidentale.

[1] Per il testo completo della Lettera v. http://www.acommonword.com/index.php?lang=en&page=downloads


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