venerdì, novembre 16, 2007

dal Corriere della Sera

MOGADISCIO – La Somalia è di nuovo sconvolta da una catastrofe umanitaria. Mentre le forze governative, appoggiate da reparti dell’esercito etiopico, stanno rastrellando interi quartieri della capitale per snidare gli insorti che ancora vi sono asserragliati, da quattro giorni è cominciato un esodo biblico. Il mercato di Bakara, il cuore di Mogadiscio, una volta affollatissimo, dove gli insorti hanno tenuto le loro posizioni fino a ieri mattina, nel pomeriggio era deserto. Negozi chiusi e bancarelle distrutte dalla battaglia. Palazzine con i muri crivellati dai proiettili. Per strada solo qualche carretto carico di vettovaglie spinto a mano da intere famiglie che abbandonano la capitale.

FUGGITIVI - L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha calcolato che almeno 173 mila persone siano scappate da Mogadiscio. Centomila si sono accampate lungo la strada che porta dalla capitale ad Afgoy, a una trentina di chilometri a su ovest. In questo centro agricolo, un volta orgoglio della Somalia, si sono già sistemati altri 150 mila sfollati fuggiti dai combattimenti dell’inizio dell’anno. Cinquantamila persone hanno giù superato Afgoi e hanno raggiunto i dintorni di Marca, capitale del Medio Shabelle. La situazione è disperata. Questa gente vive in capanne di sterpi e foglie, senza acqua e senza cibo. L’Unhcr lunedì ha comunicato di aver svuotato i magazzini di Mogadiscio e di aver mandato con dei camion, nella zona il poco cibo rimasto, sufficiente a sfamare 2500 famiglie. I cronisti però, non possono uscire dalla capitale per motivi di sicurezza: «La strada è infestata da banditi e da miliziani sbandati – ha raccontato un camionista dell’Alto Commissariato, con il veicolo carico di sacchi di farina diretto nella zona dei profughi – E poi per passare i check point i soldati governativi ci chiedono un balzello di parecchi dollari». L’autista non vuole quantificare meglio, ma un comunicato dell’agenzia sostiene: «Fino a 300 dollari». A Lafole, tra Afgoy e Mogadiscio, dove una volta sorgeva la facoltà di agraria dell’università somala, sono sorti 15 insediamenti spontanei che ospitano migliaia di sfollati. «Non riusciamo a portare gli aiuti necessari – spiegano negli uffici dell’Unhcr -. Non c’è più posto per accogliere la gente in fuga. Molte famiglie vivono sotto gli alberi. Manca l’acqua e i camion cisterna che mandiamo non riescono a soddisfare il fabbisogno. Per prendere i 20 litri assegnati a ogni famiglia qualcuno ha fatto una coda di 6 ore».

CIFRE INCERTE - «Il numero complessivo di sfollati interni in Somalia – denuncia l’organizzazione dell’Onu - è salito a 850 mila, comprese 450 mila persone costrette a fuggire dalla capitale a partire da febbraio del 2007». Ma a Mogadiscio la battaglia non è finita. Il numero delle vittime, soprattutto civili intrappolati tra due fuochi, è imprecisato. Gli ospedali sono pieni di feriti. Muktar Robow, che ha preso il nome di battaglia arabo di Abu Mansur, uno dei leader islamici che hanno giurato di combattere il Governo Federale di Transizione e i soldati etiopici che lo sostengono, ha lanciato un appello via web. «Attaccate le forze straniere – ha intimato a tutti i somali -. Anche i soldati ugandesi della forza di pace dell’Unione Africana». Kampala ha inviato in Somalia un contingente di 1700 uomini che vivono asserragliati nel porto e nell’aeroporto. Nei prossimi giorni sono attesi due battaglioni di soldati burundesi. Il capo della polizia somala Abdi Qaibdid, intervistato ieri nel suo ufficio, sostiene che in città la situazione della sicurezza è migliorata, ma che «i terroristi rappresentano ancora una grave minaccia. Terrorizzano la popolazione per costringere la gente ad appoggiarli – spiega -. Ammazzano per strada e a sangue freddo quelli che sostengono il governo: i poliziotti, i funzionari pubblici e quanti ci mostrano simpatia. Ecco perché tutti hanno paura». Secondo la Croce Rossa ci sono stati almeno 80 omicidi dalla fine dell’estate. “Cinquanta - aggiunge Abdi Kaibdid – erano poliziotti”.

ROCCAFORTE - I rastrellamenti sono affidati soprattutto alle forze etiopiche che però dalla scorsa settimana, quando hanno subito la perdita di almeno sette uomini, non usano più il guanto di velluto ma il pugno di ferro e sono decisi a schiacciare qualunque resistenza. Se gli islamici sono stati scacciati dal centro della capitale, conservano la loro roccaforte nella periferia nord occidentale di Mogadiscio, nel quartiere di Wahara’ Adde dove, nascosta nella boscaglia, sorge la moschea di Al Idayha, frequentata fino a dicembre scorso da pachistani e da afgani, considerata la roccaforte dei fondamentalisti. E’ molto vicina, tra l’altro, all’ospedale e al villaggio per orfani dell’organizzazione Sos Children. Appoggiati da una potente scorta, con il collega di Le Monde Jean-Philippe Remy, abbiamo fatto una rapido giro nella zona. Il deserto è totale e la sicurezza assai precaria. Sui tetti della case – sostiene lo stringer del Corriere Yussu Hassan – si possono annidare i cecchini. Pattuglie etiopiche, in cerca degli insorti, si muovono a piedi e il rischio di trovarsi tra due fuochi è concreto.

RIORGANIZZAZIONE - Raggiunto l’ospedale di Sos Children il medico, Albulkarim Kalifa, spiega che la struttura non è stata toccata: «Soldati e insorti si sono affrontati nelle strade adiacenti che ancora sono pericolossissime. Qualche colpo è entrato anche qui, ma è stato casuale e non intenzionale. In particolare una bomba di mortaio ha ferito gravemente una donna e leggermente un bambino». Dopo una decina di minuti di visita il dottore ci consiglia caldamente di lasciare immediatamente l’ospedale: «Vi hanno visto entrare e potrebbero avervi organizzato un’imboscata alla vostra uscita; meglio che ve ne andiate subito». Sapremo più tardi che durante la nostra visita a Sos Children, poco lontano il camion di una pattuglia etiopica è saltato su una mina telecomandata. Secondo notizie di intelligence i militanti islamici si starebbero raggruppando e starebbero ricevendo armi nel sud del Paese, nei villaggi intorno a Ras Chiamboni, quasi ai confini con il Kenya, nelle zona dove prima dell’offensiva etiopica del dicembre/gennaio scorsi avevano le loro basi. Si starebbero leccando le ferite per preparasi di nuovo a dare battaglia.


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