Scarcerati cinque attivisti per i diritti della minoranza indu. Ma rimane in vigore una legge discriminatoria e repressiva.
da PeaceReporter
Le istituzioni malesi hanno provato a salvare la faccia di fronte alla comunità internazionale liberando 31 cittadini di etnia indiana, arrestati durante alcune manifestazioni anti-discriminazione il 24 novembre passato. Ogni accusa è stata ritirata contro cinque arrestati, mentre altri 26 sono stati solo sollevati dall'accusa di tentato omicidio, punibile con 20 anni. Le accusa veniva da uno scontro con un agente, che ne era uscito con la testa rotta, in mezzo ad una manifestazione cui erano accorsi 20mila Indu. In cinque sono comunque rimasti in prigione in base ad una 'Legge di sicurezza' risalente al periodo coloniale, che permette arresti a tempo indeterminato senza processo.
Si chiama Hindu rights Action Force (Hindraf, 'Forza di difesa dei diritti Indu') il gruppo cui appartengono i 5 leaders ancora sotto arresto; i loro sostenitori lunedì erano s'erano radunati intorno alla prigione, 150 chilometri a nord della capitale. Si chiamano Uthayakumar, Manoharan, Ganabatirau, Kenghadharan, e Vasanthakumar. Anche la ong 'Human Rights Watch' ha chiesto la loro immediata liberazione perché “questo arresto è un tentativo di mettere a tacere una comunità mentre tenta di far rispettare i propri diritti”. Il premier malese Abdulah Badavi ha dichiarato che i cinque rimarranno in prigione in quanto “pericolosi per l'integrità del nostro Stato, con la loro azione volta a seminare discordia tra le comunità malese, cinese e indiana che compongono la Malesia”. Nel Paese convivono una larga maggioranza malese e musulmana (su 27 milioni), che detiene il potere politico e amministrativo, e svolgono i lavori meno qualificati, e una comunità cinese molto forte (35 percento popolazione) che detiene quasi tutte le attività economiche. Infine un otto percento di indiani, che compongono il nocciolo duro della classe media e professionale.
Gli attivisti dell'Hindraf premono per un riconoscimento dei diritti religiosi della minoranza Hindu, oltre a chiedere l'abolizione di un vecchio sistema di quote nei posti amministrativi, in favore della popolazione malese, secondo loro macchiata dalla discriminazione razziale. La organizzazione Hrw chiede che la Malesia applichi i trattati internazionali sul rispetto dei diritti umani firmati sotto l'auspicio dell'Onu e un mese fa dell'Asean, organismo economico regionale che ha obbligato i suoi membri al rispetto di standard minimi per le libertà civili politiche e sociali. Invece il 15 dicembre il Pm e l'ispettore di polizia incaricati del caso avevano dichiarato in conferenza stampa che gli attivisti avevano “legami chiari col terrorismo internazionale” e che si erano “immischiati in attività mirate a far montare l'odio razziale”. Anche i 26 scarcerati lunedì 16 per ottenere il rilascio su cauzione hanno dovuto patteggiare e confessare di aver “causato disturbi alla quiete pubblica”, durante la manifestazione, cosa per la quale andranno a giudizio il 27 dicembre. Invece nelle carceri malesi rimarrano quegli 87 cittadini mai ancora giudicati, in base alla legge di sicurezza interna (Isa, Internal Security Act) con la quale i cinque leader della protesta sono ancora in attesa di giudizio. Diverse ong hanno chiesto al governo malese l'abolizione di questa norma.
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Le istituzioni malesi hanno provato a salvare la faccia di fronte alla comunità internazionale liberando 31 cittadini di etnia indiana, arrestati durante alcune manifestazioni anti-discriminazione il 24 novembre passato. Ogni accusa è stata ritirata contro cinque arrestati, mentre altri 26 sono stati solo sollevati dall'accusa di tentato omicidio, punibile con 20 anni. Le accusa veniva da uno scontro con un agente, che ne era uscito con la testa rotta, in mezzo ad una manifestazione cui erano accorsi 20mila Indu. In cinque sono comunque rimasti in prigione in base ad una 'Legge di sicurezza' risalente al periodo coloniale, che permette arresti a tempo indeterminato senza processo.
Si chiama Hindu rights Action Force (Hindraf, 'Forza di difesa dei diritti Indu') il gruppo cui appartengono i 5 leaders ancora sotto arresto; i loro sostenitori lunedì erano s'erano radunati intorno alla prigione, 150 chilometri a nord della capitale. Si chiamano Uthayakumar, Manoharan, Ganabatirau, Kenghadharan, e Vasanthakumar. Anche la ong 'Human Rights Watch' ha chiesto la loro immediata liberazione perché “questo arresto è un tentativo di mettere a tacere una comunità mentre tenta di far rispettare i propri diritti”. Il premier malese Abdulah Badavi ha dichiarato che i cinque rimarranno in prigione in quanto “pericolosi per l'integrità del nostro Stato, con la loro azione volta a seminare discordia tra le comunità malese, cinese e indiana che compongono la Malesia”. Nel Paese convivono una larga maggioranza malese e musulmana (su 27 milioni), che detiene il potere politico e amministrativo, e svolgono i lavori meno qualificati, e una comunità cinese molto forte (35 percento popolazione) che detiene quasi tutte le attività economiche. Infine un otto percento di indiani, che compongono il nocciolo duro della classe media e professionale.
Gli attivisti dell'Hindraf premono per un riconoscimento dei diritti religiosi della minoranza Hindu, oltre a chiedere l'abolizione di un vecchio sistema di quote nei posti amministrativi, in favore della popolazione malese, secondo loro macchiata dalla discriminazione razziale. La organizzazione Hrw chiede che la Malesia applichi i trattati internazionali sul rispetto dei diritti umani firmati sotto l'auspicio dell'Onu e un mese fa dell'Asean, organismo economico regionale che ha obbligato i suoi membri al rispetto di standard minimi per le libertà civili politiche e sociali. Invece il 15 dicembre il Pm e l'ispettore di polizia incaricati del caso avevano dichiarato in conferenza stampa che gli attivisti avevano “legami chiari col terrorismo internazionale” e che si erano “immischiati in attività mirate a far montare l'odio razziale”. Anche i 26 scarcerati lunedì 16 per ottenere il rilascio su cauzione hanno dovuto patteggiare e confessare di aver “causato disturbi alla quiete pubblica”, durante la manifestazione, cosa per la quale andranno a giudizio il 27 dicembre. Invece nelle carceri malesi rimarrano quegli 87 cittadini mai ancora giudicati, in base alla legge di sicurezza interna (Isa, Internal Security Act) con la quale i cinque leader della protesta sono ancora in attesa di giudizio. Diverse ong hanno chiesto al governo malese l'abolizione di questa norma.
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