di Naoki Tomasini. PeaceReporter
Storia di un ex soldato iracheno
Sono stato per sedici anni nell'esercito iracheno, sotto Saddam, con il grado di capitano, fino all'invasione del 2003. Il giorno stesso dell'arrivo degli statunitensi fui trasferito dall'accampamento dove mi trovavo e interrogato dai soldati Usa. Eravamo nel quartiere di Zaafaraniya, a Baghdad. “Cosa pensi di Saddam?” mi chiesero. Sto dalla sua parte, risposi, perché da noi c'è un proverbio che dice: meglio il nemico che conosci di quello ignoto. L'interrogatorio durò a lungo e venni rilasciato solo dopo dodici ore.
Sono stato per sedici anni nell'esercito iracheno, sotto Saddam, con il grado di capitano, fino all'invasione del 2003. Il giorno stesso dell'arrivo degli statunitensi fui trasferito dall'accampamento dove mi trovavo e interrogato dai soldati Usa. Eravamo nel quartiere di Zaafaraniya, a Baghdad. “Cosa pensi di Saddam?” mi chiesero. Sto dalla sua parte, risposi, perché da noi c'è un proverbio che dice: meglio il nemico che conosci di quello ignoto. L'interrogatorio durò a lungo e venni rilasciato solo dopo dodici ore.
Mi portarono in un ex palazzo di Saddam sulla rive del fiume. Incappucciato, in una stanza, con le mani legate dietro la schiena e i piedi tra loro. Ancora un interrogatorio. Chi sei? Cosa fai? Dove vai? Poi mi levarono il cappuccio e iniziarono a picchiarmi. Erano tutti dietro le mie spalle, mi davano calci e mi mostrarono un bastone. “Sai cos'è questo?”, mi chiesero. “E' un bastone” risposi. Così mi schiacciarono la testa verso il basso e mi colpirono sulla spalla. Il colpo mi fece cadere per terra e vidi che a colpirmi era stato un iracheno. Gli altri, gli americani, a quel punto mi rimisero sulla sedia e ripresero a domandare: “Cosa fai in giro a quest'ora? C'è il coprifuoco.” Non ebbi il tempo di rispondere che un altro colpo mi fece ricadere. “Pratichi la boxe? Il Kung Fu?”, e di nuovo botte. Alla fine mi spinsero contro un muro, mi fotografarono e dissero: “questa la trasmettiamo a tutte le pattuglie di Baghdad, se ti becchiamo un'altra volta non avremo pietà di te”. E mi lasciarono andare. Gli americani hanno attraversato i continenti per arrivare fino a qua. Sono strani, ma non c'è nulla di peggio degli iracheni che collaborano con loro.
Sei mesi dopo, stavo guidando il taxi nella zona di Ashab quando un gruppo di paramilitari iracheni circondò l'auto. La strada era piena di automobili e i miliziani le controllavano facendo scendere i passeggeri. Urlavano, io avevo paura e sono stato zitto. Non controllavano i documenti, chiedevano solo la nazionalità. Poi ci costrinsero a salire sui loro mezzi, una Mercedes, una Volvo e un pick-up. A un certo punto ci fecero scendere e ci bendarono, poi riprendemmo la strada sul pick-up. Giunti non so dove, ci fecero sedere in una stanza puzzolente e chiesero chi di noi fosse sunnita e chi sciita. Mi chiesero i documenti ma risposi che li aveva presi uno di loro e dovetti pronunciare la chahada, la testimonianza di fede, per confemare che sono uno sciita di Kerbala. Ma il mio aguzzino non mi credette e iniziò ad alterarsi. “Sono iracheno della tribù di Machada” spiegai, ma quello mi rispose: “prima ti cavo gli occhi e poi ti ammazzo”. Sentivo che nel frattempo telefonavano a Kerbala in cerca di conferme. A quel punto giunse un uomo, al suo passaggio si alzarono tutti perchè era un sayyed (un'alta autorità religiosa sciita). Lo conoscevo e sapevo che suo padre era vissuto a Kerbala. Gli raccontai di mio nonno, dei miei parenti.. “questo tipo dice la verità” sentenziò lui. Questo è sciita. Così mi resero i documenti, mi chiesero scusa e si offrirono di accompagnarmi a casa. Rifiutai. Non so che fine abbiano fatto gli altri. Quel giorno in auto con me c'erano dei sunniti.
Tre mesi dopo mi trovavo di nuovo vicino al mercato di al Husseiniya, dove ci fu un attentato seguito da una fitta sparatoria. Ricordo solo di avere corso come un pazzo e di aver ringraziato Dio per averla scampata anora una volta. Dopo quell'episodio tornai a vivere a Baghdad, dove continuai a fare il tassista. Un giorno trasportavo una donna, parente di mio cognato, nel quartiere di Ghreeat, una zona sciita nelle mani dell'esercito del Mahdi. Scesi dall'auto e vidi una ventina di uomini armati col viso coperto che mi fissavano. Passai davanti al loro con indifferenza e li salutai, ma loro mi fermarono puntandomi le armi e mi chiesero “che ci fai qui?” “Che ve ne importa” risposi loro in un moto di coraggio. Iniziarono a colpirmi e mi costrinsero a salire sulla loro auto. Partimmo e dopo pochi minuti mi fecero scendere. Non capivo dove fossi, vedevo solo un potente proiettore di luce rossa. Fui colpito col calcio del fucile sulla schiena e persi i sensi.
Mi ripresi con una luce in faccia che faceva apparire le persone davanti a me come sagome in controluce. Mi picchiarono e mi chiesero se fossi sunnita o sciita, poi mi spinsero a terra dove mi colpirono con un calcio sul naso. “raccontaci delle autobombe e dei gruppi di resistenza”, mi dissero. Ero convinto che mi avrebbero ucciso, qualunque fossero state le mie risposte. Era il periodo di ramadan e chiesi almeno di bere, ma minacciarono di avvelenarmi e mi chiesero se avessi avuto fratelli assassinati. “Due” risposi. “Faccio solo il tassista, non c'entro nulla”, continuai, e loro mi risposero “Dicci la verità o ti tagliamo la testa”. L'interrogatorio durò così ancora almeno un paio d'ore, finchè mi chiesero: “chi conosci dell'esercito del Mahdi?”. “Giusto alcuni lontani parenti”, e dissi i nomi. Ma non bastò. Mi portarono in giardino, dove fui legato a una palma con la faccia verso il fusto. “Frustatelo fino alla morte”, disse una voce che bestemmiava e mi insultava. Al primo colpo sulle mani capii che era un bastone elettrico. Poi ancora sulle ginocchia, forse ero debole per il ramadan, ma mi tremava tutto il corpo. Mi sentivo cadere e, per impedirlo, mi legarono anche per il collo. Ancora colpi con il calcio dei Kalashnikov e calci. Tenevo a stento gli occhi aperti ma vedevo solo delle figure indistinte. Mi sentivo soffocare ma non c'era nulla che potessi dire o fare. “Portatelo alla riva e ammazzatelo”, disse un'altra voce, mi trascinarono per i piedi verso l'acqua e iniziarono a sparare vicino a me. Capii che volovano terrorizzarmi. “Lascia perdere - disse allora uno dei due miliziani all'altro che sparava - questo non è un sunnita, se lo uccidi poi ti pentirai”. Si misero a discutere sul da farsi e concordarono che era troppo pericoloso trasportarmi fino a Sadr City per uccidermi.
Poi di colpo qualcuno iniziò a urlare: “Gli americani, gli americani!” e scapparono tutti, forse per attaccarli. I soldati Usa c'erano davvero, e dopo uno scontro a fuoco con i miliziani si rifugiarono proprio nel cortile dove mi trovavo, ancora legato. Sentii un calcio datomi per capire se fossi ancora vivo. Cercai di girarmi ma non riuscii, avevo dolori dappertutto e non riuscivo ad aprire gli occhi. Mi portarono all'ospedale di Bin Sina, vicino alla Zona Verde, dove venni ricoverato per cinque giorni. Quando stavo per lasciare l'ospedale un interprete dell'esercito tentò di interrogarmi per capire chi fossero i miei torturatori. “Ero in una zona sciita, risposi, saranno stati quelli dell'esercito del Mahdi, o quelli del partito della predicazione Daawa, o le brigate Badr.” Chiesi di essere accompagnato nel quartiere di Al Rashidiya, dove trovai un parente che mi disse: “Sono sei giorni che ti cerchiamo”. Mi sdraiai sul sedile posteriore dell'auto e il parente mi accompagnò a casa, dove, dopo aver parlato con la famiglia, decisi di partire e andare in Siria, dove ho uno zio che fa il medico ad Aleppo.
Cinque mesi dopo le mie ferite erano quasi scomparse, facevo l'autista per un'azienda siriana dell'editoria. Avevo chiesto asilo politico in Egitto, dove ho un cugino, ma mi era stato rifiutato, così sono rimasto a Damasco, dove attendo di essere registrato dall'Unhcr (L'alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Ora vivo a Saida Zeinab, un sobborgo di Damasco abitato da sciiti iracheni, la mia situzione economica è pessima, ho alloggiato in vari posti, ho una stanza che pago 150 lire siriane (poco più di due euro). Lavoro in un'azienda di pulizie e non ho rapporti con gli altri sciiti, solo saluti. Del resto, tutti gli amici che avevo sono rimasti in Iraq, molti di loro oggi stanno con le milizie. Non so se tornerò mai indietro. L'Iraq non tornerà mai com'era sotto Saddam, non sarà mai più unito. Il paese è nelle mani di politici incapaci che, con l'aiuto degli Usa, hanno formato milizie per uccidere gli ex esponenti del regime di Saddam, per fare pulizia etnica. Evidentemente, dopo tanti anni di guerra con l'Iraq gli iraniani hanno voluto vendicarsi.
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