Prosegue in Italia il dibattito sull’aborto. Sulla questione è intervenuto ieri anche mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, interpellato dai giornalisti a margine della conferenza stampa di presentazione del Congresso Internazionale che si terrà in Vaticano la prossima settimana sul tema dei malati inguaribili. Giovanni Peduto (di Radio Vaticana) lo ha intervistato questa mattina chiedendogli innanzitutto di commentare il fatto che sembra crescere la consapevolezza del valore della vita, anche tra i laici:
R. – Certamente siamo di fronte ad un auspicato, ma non ancora sufficiente, risveglio dell’apprezzamento della vita sia nella sua fase iniziale, sia anche nella sua fase di conclusione e di fragilità. Questo si spiega anche da un punto di vista – diremmo – razionale e sociale, perché proprio riguardo alla vita nascente ci sono ormai Paesi che sono al declino, che si trovano in una fase di autogenocidio, poiché hanno ridotto le nascite sotto la media e, quindi, ogni anno viene registrato un successivo calo.
R - Questo vale per l’Europa e vale particolarmente per l’Italia. Se non ci fosse l’immigrazione, mancherebbe quello che si chiama capitale umano e quindi la forza lavoro, con tutte le conseguenze che questo porterebbe poi, ad esempio, sulle pensioni o sulla produttività. Si sentono ormai a fior di pelle entrare in crisi le più grandi economie occidentali. Questo ha fatto rinsavire alcuni, che magari guardano soltanto agli aspetti temporali della popolazione e della demografia, per rivalutare le politiche che incoraggino le nascite, che frenino anche l’abortività e le pianificazioni spietate, che sono state fatte nei decenni passati.
D. - In Italia il dibattito sull’aborto è sempre più vivace: cosa ne pensa?
R. – In Italia, dopo la moratoria sulla pena di morte, spontaneamente e in ambito laico è sorta principalmente e prioritariamente una o più voci di ripensamento sulle politiche abortive. Naturalmente la Chiesa non ha mai avuto sentimenti di rassegnazione passiva sul trauma dell’aborto legalizzato, così come le voci dei Pontefici sono state sempre ricorrenti, affinché si ripensasse a tutto questo, anche in termini di legalizzazione spietata. Noi speriamo che questo ripensamento sul piano culturale ed anche sul piano legislativo possa dare quei frutti di saggezza che ci si attendono per una correzione di rotta. Questo è il punto: è necessaria una correzione di rotta sia nell’accoglienza della vita, sia nel sostegno alla famiglia.
D. - Lei ieri ha detto che l’aborto non è solo una questione privata, ma un problema politico e che sarebbe ipocrisia negarlo…
R. – Penso che si debba confermare questo pensiero in senso molto chiaro. Quelli che sono i sostenitori della legge sull’aborto dicono di averla proposta per denunciare la situazione dell’aborto clandestino, per farlo diventare un problema di responsabilità pubblica. Ma come ragioniamo allora? Se c’è una responsabilità pubblica a tal punto che lo si vuole portare fuori dalla clandestinità, significa allora che si tratta di un problema pubblico, di un problema politico. D’altra parte, però, la perdita di vite umane non è un fatto di coscienza privata, di interiorità come può essere l’andare o meno a Messa la domenica o dire le preghiere al mattino. La vita umana è all’origine stessa della società. Non si può, dunque, neanche teoricamente, dire uno sfrondone di questo genere, che si tratta cioè di una questione privata. Se invece rappresenta un problema di bene pubblico ed è un problema di bene pubblico addirittura fondamentale, perché il primo bene è quello della vita, è necessario che tutti se ne rendano conto. Si tratterà di pensarci democraticamente, di discuterne persuasivamente, di aiutare le donne che si trovano in difficoltà e le famiglie che hanno difficoltà. Non deve essere certo un castigo o semplicemente la forza della legge penale, ma deve esserci un ripensamento sul bene della vita, che è poi fonte di amore e di pace in una società.
R. – Certamente siamo di fronte ad un auspicato, ma non ancora sufficiente, risveglio dell’apprezzamento della vita sia nella sua fase iniziale, sia anche nella sua fase di conclusione e di fragilità. Questo si spiega anche da un punto di vista – diremmo – razionale e sociale, perché proprio riguardo alla vita nascente ci sono ormai Paesi che sono al declino, che si trovano in una fase di autogenocidio, poiché hanno ridotto le nascite sotto la media e, quindi, ogni anno viene registrato un successivo calo.
R - Questo vale per l’Europa e vale particolarmente per l’Italia. Se non ci fosse l’immigrazione, mancherebbe quello che si chiama capitale umano e quindi la forza lavoro, con tutte le conseguenze che questo porterebbe poi, ad esempio, sulle pensioni o sulla produttività. Si sentono ormai a fior di pelle entrare in crisi le più grandi economie occidentali. Questo ha fatto rinsavire alcuni, che magari guardano soltanto agli aspetti temporali della popolazione e della demografia, per rivalutare le politiche che incoraggino le nascite, che frenino anche l’abortività e le pianificazioni spietate, che sono state fatte nei decenni passati.
D. - In Italia il dibattito sull’aborto è sempre più vivace: cosa ne pensa?
R. – In Italia, dopo la moratoria sulla pena di morte, spontaneamente e in ambito laico è sorta principalmente e prioritariamente una o più voci di ripensamento sulle politiche abortive. Naturalmente la Chiesa non ha mai avuto sentimenti di rassegnazione passiva sul trauma dell’aborto legalizzato, così come le voci dei Pontefici sono state sempre ricorrenti, affinché si ripensasse a tutto questo, anche in termini di legalizzazione spietata. Noi speriamo che questo ripensamento sul piano culturale ed anche sul piano legislativo possa dare quei frutti di saggezza che ci si attendono per una correzione di rotta. Questo è il punto: è necessaria una correzione di rotta sia nell’accoglienza della vita, sia nel sostegno alla famiglia.
D. - Lei ieri ha detto che l’aborto non è solo una questione privata, ma un problema politico e che sarebbe ipocrisia negarlo…
R. – Penso che si debba confermare questo pensiero in senso molto chiaro. Quelli che sono i sostenitori della legge sull’aborto dicono di averla proposta per denunciare la situazione dell’aborto clandestino, per farlo diventare un problema di responsabilità pubblica. Ma come ragioniamo allora? Se c’è una responsabilità pubblica a tal punto che lo si vuole portare fuori dalla clandestinità, significa allora che si tratta di un problema pubblico, di un problema politico. D’altra parte, però, la perdita di vite umane non è un fatto di coscienza privata, di interiorità come può essere l’andare o meno a Messa la domenica o dire le preghiere al mattino. La vita umana è all’origine stessa della società. Non si può, dunque, neanche teoricamente, dire uno sfrondone di questo genere, che si tratta cioè di una questione privata. Se invece rappresenta un problema di bene pubblico ed è un problema di bene pubblico addirittura fondamentale, perché il primo bene è quello della vita, è necessario che tutti se ne rendano conto. Si tratterà di pensarci democraticamente, di discuterne persuasivamente, di aiutare le donne che si trovano in difficoltà e le famiglie che hanno difficoltà. Non deve essere certo un castigo o semplicemente la forza della legge penale, ma deve esserci un ripensamento sul bene della vita, che è poi fonte di amore e di pace in una società.
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