martedì, maggio 06, 2008
A Hebron gli opposti si toccano. Nella più grande città della Cisgiordania, a sud di Betlemme, 200mila palestinesi vivono a stretto contatto con 3/400 coloni, noti per essere tra i più radicali e inclini alla violenza. Qui i contrasti e le ferite del conflitto sono esposti, anche se alla pubblica indifferenza. La lotta degli uni contro il terrorismo palestinese, degli altri contro l'occupazione, assume più che altrove connotati religiosi. Così accade che le anche autorità israeliane si lascino guidare dal noto pregiudizio secondo cui Islam è uguale a terrorismo, e poco importa se, questa volta, le vittime del teorema sono solo dei bambini.

da PeaceReporter

Da quasi un anno il governo israeliano prende di mira le organizzazioni e le singole personalità legate ad Hamas in Cisgiordania, per favorire il governo di Abu Mazen e per spingere il partito islamico a consegnare la Striscia di Gaza, che controlla dal giugno 2007. Le autorità israeliane in particolare hanno requisito diverse organizzazioni caritatevoli di Hamas, per colpire il loro principale strumento di proselitismo tra le fasce più deboli della popolazione palestinese. La carità del resto è uno dei pilastri dell'Islam, però Hamas ne detiene il monopolio.

A Hebron chi si occupa dei bambini disagiati, e di quel piccolo esercito di orfani che quel contesto ha creato, sono due organizzazioni islamiche, l'Islamic Charity Movement, e l'Islamic Youth Association, che con Hamas non hanno legami. Eppure, lo scorso febbraio, l'esercito israeliano ha effettuato una serie di raid nelle strutture delle due organizzazioni, sequestrando beni per circa 200 mila dollari e annunciando l'imminente sgombero delle stesse. Il motivo? Sostegno ad un'organizzazione terrorista. Lo si legge nelle ordinanze militari di sgombero che sono state consegnate ai responsabili delle scuole e degli orfanotrofi, in cui si accusano le organizzazioni caritatevoli di essere una copertura col fine di raccogliere fondi per la rete terrorista di Hamas e di indottrinare i giovani con l'ideologia radicale islamica.

“Il nostro movimento è stato fondato nel 1971, sedici anni prima della nascita di Hamas” spiega seccamente Abd el Alim Danaa, del Comitato Nazionale dell'Islamic Charity Movement, un uomo robusto sulla sessantina, con alle spalle un passato nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e 23 anni nelle carceri israeliane. “Siamo una Ong riconosciuta dal ministero dell'Interno palestinese, che controlla la provenienza e l'impiego dei nostri fondi. Non solo -continua- nelle nostre scuole adottiamo i programmi imposti dal ministero dell'Istruzione palestinese, non facciamo alcun tipo di propaganda e non siamo un'istituzione radicale. E del resto se nei nostri istituti lavorassero esponenti di Hamas li avrebbero già arrestati come hanno fatto con tutti i simpatizzanti del movimento”.

Nella provincia di Hebron ci sono otto scuole e due orfanotrofi gestiti dell'Islamic Charity Movement, che dall'inizio di aprile attendono di essere sgomberati. Secondo Danaa si tratta di circa 6mila bambini e oltre 300 orfani. “Non sappiamo che fare -spiega sconsolata la direttrice di una scuola per bambine gestita dall'Icm- forse faremo lezione per le strade. Abbiamo ricevuto l'ordinanza di sgombero ma non abbiamo molti mezzi per contestarla: abbiamo organizzato delle manifestazioni con i bambini che portavano i banchi di scuola per strada, per attirare l'attenzione della gente e dei media, abbiamo anche avviato delle azioni legali. Solo che i nostri avvocati non si possono appellare alle corti israeliane. Non abbiamo fiducia nella loro giustizia che mette sempre i problemi di sicurezza davanti a quelli dei civili palestinesi”. “Il provvedimento di sgombero non è legittimo -l'interrompe Abd el Alim Danaa- questa secondo gli accordi di Oslo è Area A, cioè sotto il controllo dell'Autorità palestinese. L'esercito israeliano non ha il diritto di sequestrare proprietà in questa zona, ma quando i nostri avvocati lo hanno fatto presente si sono sentiti rispondere che il ricorso deve essere inoltrato all'Anp”.

Nell'aula dell'istituto per bambine la maestra di inglese spiega alle alunne che la loro scuola potrebbe essere presto chiusa e insegna loro a gridare “please save our school”, lo slogan che grideranno per le strade al termine della lezione. Loro ripetono a squarciagola senza perdere il sorriso. Suona la campanella e, dopo pochi minuti, la via principale di Hebron è invasa da bambini e bambine che bloccano il traffico con cartelli che domandano “perché chiudere la mia scuola?” e “sono forse un terrorista?” Gli automobilisti osservano senza perdere la pazienza la massa di marmocchi che urla, corre e salta sui banchi portati dalle aule. Stessa situazione davanti all'orfanotrofio femminile, ma decisamente più compassata. Anche qui banchi per strada, striscioni, cartelli e bambine che percuotono le gavette col cucchiaio, mentre alle loro spalle le ragazze più grandi, coperte da hijab e chador nero, osservano in silenzio.

“I miei genitori sono entrambi morti” racconta Nibel, 17 anni, “e da allora l'Islamic Charity si è preso cura di me. Mi hanno dato una scuola, un posto dove dormire e tutto ciò di cui avevo bisogno. Sono stati una famiglia per me, non posso pensare che un luogo come questo venga chiuso”. Si scalda Nibel quando qualcuno le chiede se sia mai stata forzata a comportarsi in modo religioso: “No mai! Mi hanno solo aiutato a capire che la via della fede è quella giusta”. Al suo fianco una sua amica, intensi occhi azzurri sotto il foulard bianco, si chiama Rahida e viene dagli Stati Uniti. Racconta di come dopo l'11 settembre i media statunitensi le avessero fatto un lavaggio del cervello, “alla fine mi vergognavo di essere araba, e mi avevano convinto che tutti gli islamici sono terroristi. Poi mio padre mi ha obbligato a trasferirmi qui, all'inzio mi sentivo morire, non parlavo la lingua e mi trovavo in un ambiente tutt'altro che liberale. Poi però ho iniziato a capire quanto bene si fa in luoghi come questo ed è iniziata la mia trasformazione”. Oggi Rahida presta servizio volontario all'orfanotrofio per bambine, e non riesce a trattenere la sua rabbia all'idea che quelle creature vengano abbandonate al loro destino.

Pochi chilometri più in là, al limite orientale della città, c'è un palazzone di recente costruzione che ospita l'altro orfanotrofio, quello per i maschi. Inaugurato nel 2004, questo edificio è stato costruito con fondi provenienti da Qatar, Francia e Gran Bretagna per ospitare i casi più disperati, nel tentativo di restituire loro un'infanzia normale e un'atmosfera sana. Anche qui i soldati israeliani hanno comunicato l'imminente sgombero ma, già all'inizio di marzo, avevano sequestrato i due autobus che l'organizzazione usava per trasportare i bambini dal dormitorio alle scuole. “Non c'è stato modo di averli indietro -spiega il dirtettore del centro- abbiamo dovuto prenderne altri in affitto dalla compagnia di trasporti nazionale”. Se non fosse per la minaccia di chiusura che potrebbe essere esegiuita in qualunque momento, l'istituto per gli orfani parrebbe proprio un'isola felice. Stanze ordinate e spaziose, bagni lindi, aule per studiare, un ampio campo da gioco e una sala mensa che, dopo la fine delle lezioni, diventa una bolgia.

Grida esagitate, risate, rumore di piatti e sorrisi. “Ci sono bambini dolci e altri che sono molto aggressivi -spiega lo psicologo del centro durante il pranzo-, dipende da quanto tempo hanno trascorso nella struttura. Comunque qui anche quelli più agressivi mostrano dei miglioramenti”. Poi inizia a camminare tra i tavoli per indicare i ragazzini con le storie più difficili: “Questo è Jamal -dice, abbracciando un bambino in sovrappeso col viso simile a un adulto. Lo abbiamo tirato su dalla strada dove faceva l'elemosina. Nel centro gli è stato offerto un posto letto e dove mangiare e 10 shekel al giorno se avesse smesso di mendicare. Da qualche tempo va anche a scuola”. Lo psicologo fa qualche altro passo e riprende: “Lui è Sa'èb, ha perso la madre, ma suo padre non si prende cura di lui perché è un tossicodipendente, mentre quest'altro è Suleiman, il padre è morto anni fa in un incidente e la madre è gravemente malata di cancro. E c'è anche il caso di Muhammad, un bambino che i genitori li ha ancora, ma non può più vivere con loro per via di una faida familiare. Se torna a casa i nemici della sua famiglia lo uccidono, qui ha trovato una nuova vita”.

Lo psicologo è convinto che la chiusura di questo orfanotrofio avrà un effetto disastroso su questi bambini, ma sarà un fatto negativo anche per Israele, “Se vengono abbandonati -spiega- diventeranno dei criminali con cui prima o poi l'esercito dovrà avere a che fare. Alcuni di loro odiano l'intera umanità per la situazione in cui vivono, invidiano chiunque abbia qualcosa”. Odiano eppure hanno paura, lo sostiene il direttore della scuola femminile, secondo cui da quando vivono con lo spettro dello sgombero, i bambini hanno incubi e i loro risultati scolastici sono peggiorati. “Faccio questo mestiere da anni ma per la prima volta in questi giorni ho pianto -conferma lo psicologo dell'orfanotrofio maschile- questi bambini per certi aspetti sono degli adulti, si rendono conto della situazione e nell'intimità dei nostri colloqui mi dicono “Tu che conosci le nostre storie, dicci che cosa potremo fare dopo”.

La data ufficiale dello sgombero era fissata per il 7 aprile, ma da allora le autorità israeliane hanno concesso delle proroghe, ogni volta della durata di una settimana. Le manifestazioni dei bambini hanno attirato l'attenzione di alcuni media internazionali e hanno raggiunto anche le colonne del quotidiano israeliano Haaretz. In sostegno degli orfani di Hebron si è spesa anche l'organizzazione israeliana dei Rabbini per i Diritti Umani, per bocca del rabbino Arik Ascherman, secondo cui il provvedimento è “incompatibile con il concetto ebraico di giustizia”. Persino i quadri di Fatah, che vedono di buon occhio qualsiasi attacco contro Hamas, si sono spesi per fare in modo che l'ordinanza non venga eseguita. Ma nel frattempo i bambini cercano di continuare a vivere in modo normale. Nelle scorse settimane al loro fianco si sono schierati anche i volontari internazionali del Christian Peacemaker Team, che si sono offerti di dormire negli orfanotrofi per mostrare ai bambini come comportarsi in caso di irruzione dell'esercito e, nel caso, per documentare e testimoniare gli sgomberi.

Se l'aggressione contro l'Islamic Charity Movement è stata dettata dal pregiudizio anti-islamico, questi gesti dimostrano almeno che la solidarietà nei loro confronti è stata ecumenica. Ma che ruolo ha davvero la religione in quel che si insegna nelle scuole dell'Islamic Charity Movement? “Io insegno in questa scuola da 12 anni” si presenta un insegnante di inglese. “Non sono di Hamas e non credo nella violenza. Non sono un terrorista, non odio né gli ebrei né i cristiani e non ho mai detto una sola parola contro le altre religioni davanti ai ragazzi. Noi siamo musulmani e non lo nascondiamo, ma siamo prima di tutto degli educatori, abbiamo il dovere di discutere con i bambini argomenti importanti, come tutti i cattivi esempi di islam radicale con cui entrano in contatto. Sono stato picchiato tre volte dai soldati israeliani, sempre davanti ai miei studenti, ma non ho mai insegnato loro ad odiare”. “Io a volte uso brani del Corano -si inserisce lo psicologo- perchè mi permette ad esempio di spiegare ai bambini che fine hanno fatto i loro genitori, ma anche per giustificare valori come il rispetto e la pace”. Israele vuole chiudere le nostre scuole perché ritiene che qui si formino i sucide bombers, ma da noi si insegna a interpretare la religione in modo moderato. Il contrario di quello che gli verrebbe inculcato se questi istituti venissero chiusi.

L'Islamic Charity Movement è finanziato all'80 percento da donatori stranieri, e in parte si sostiene anche comprando immobili in città da affittare a privati. L'esercito israeliano però non è andato per il sottile e ha disposto ordinanze di sequestro anche per tutti gli immobili collegati all'organizzazione. Quindi oltre che sulle scuole e gli orfanotrofi, la spada di Damocle pende anche sulla testa di una libreria per bambini, un panettiere che rifornisce le mense, una clinica per la riabilitazione, un negozio di abbigliamento e persino una beauty farm. Sfortuatamente, quando le istituzioni perdono la capacità di distinguere i valori di una religione dalle sue aberrazioni, capita anche che perdano il senso del ridicolo.

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