sabato, giugno 28, 2008

Donne da tutto il mondo si danno appuntamento in Medio Oriente per pedalare per la pace.

PeaceReporter - “Take what you see and live in your heart, in your head”, con queste parole Detta Regan ideatrice di Follow the Women, ci stregava ogni volta che concludeva un suo discorso. Quando nel 2000 ebbe l’idea di portare un gruppo di donne in Medio-Oriente, sembrava un’impresa a dir poco irrealizzabile, ma anche quest’anno per la quarta volta quasi 300 da 25 paesi si sono date appuntamento lì, per dimostrare che “l’impossibile è possibile”. Ed una pace che tarda ancora ad affacciarsi all’orizzonte deve essere possibile. Le donne di Follow the women rivendicano, pedalando insieme, il diritto di movimento e di libertà, usando “gesti d’aria” come il dialogo, l’ascolto, una stretta di mano, un abbraccio per condividere, parole, emozioni, pensieri.

''Pedala, pedala per la Pace!''. Con queste parole avevo sintetizzato, prima di partire, lo spirito che anima il progetto, nonché la mia motivazione a parteciparvi, convinta che grazie al dialogo, alla partecipazione solidale, esperendo direttamente le contraddizioni e la ricchezza del mondo medio-orientale avrei compreso un po’ di più la complessità multiculturale di quelle terre, superando al tempo stesso gli stereotipi e i limiti dati dalle posizioni politiche e dai 'confini' delle chiusure culturali. Ma non basta. Bisogna dire, dire che sono insopportabili agli occhi, al cuore, alla ragione, le ingiustizie che si perpetuano in quelle terre da troppi decenni. Incontenibile l’amara impotenza di fronte ai campi profughi palestinesi di Al Hussaineh in Libano, alle testimonianze delle profughe irakene. Annodata in gola la tristezza nel sentire la voce al vento delle donne che comunicano l’un l’altra con un megafono nelle alture del Golan, la ferocia della distruzione del villaggio di Qunaitra, sempre in Siria, distrutto dagli israeliani nel 1973. Oggi è lì, come allora, a testimoniare l’orrore della guerra a chi come me l’ha solo sentita raccontare. E ancora l’aspro fastidio di sentirsi privilegiata in quanto europea, ai check-points dove che la maggior parte dei soldati sono delle ragazze ventenni con nessuna espressione in volto e lo sguardo piegato verso il basso. Mondi confinati fuori e dentro l’arroganza di una sorda supremazia.

''Yalla, yalla'', ''Andiamo, andiamo'' così spesso venivamo esortate a non lasciarci sopraffare dalla stanchezza quando mancava poco all’arrivo. Allora “Yalla”, per ricordare anche che andare in quei luoghi significa vedere dei paesaggi di rara bellezza (dalla valle color smeraldo del Bekaa, alla desertica Siria, dal liquoroso Mar Morto al lunare confine di king Hussein Bridge al confine israeliano), o città come Damasco, la Bianca Amman, Nabl us, Gerico dove la stratificazione dell’architetture ci fa ricordare che anche la nostra storia è legata a quelle terre, e soprattutto dove l’ospitalità è autentica ed il calore umano è sincero e generoso.

Il viaggio si è concluso a Rumana, un paesino a nord-ovest di Jenin, dove siamo state accolte ed dalle famiglie palestinesi. “Dite che non siamo degli animali, che non siamo dei terroristi, ma siamo esseri umani, e vogliamo la pace”. Poche secche parole in un inglese stentato, che comunicano un messaggio chiaro e semplice, in grado di andare ben oltre la noiosa retorica. “Cosa posso fare per voi?” Gli chiesi prima d’andarmene, e questa fu la risposta di Tisser, il “poeta” del villaggio. Tisser è un signore buono sulla cinquantina che ha sempre lavorato fuori dalla Palestina, per poter mantenere la sua famiglia di dieci figli. Io ho avuto la fortuna di essere ospitata a casa sua. La moglie aveva preparato una cena abbondante, per noi cinque ospiti, i loro figli e ai parenti che a rotazione venivano a darci il benvenuto, e prima d’accostarci con un tocco lieve materno ci diede la buona notte. E’ stata solo una serata, eppure quel attraversare il ponte della conoscenza, la soglia fisica della loro porta mi ha fatta entrare in un mondo che alla fine riconoscevo come familiare. Peccato che dalla loro terrazza si vedesse il muro in costruzione, che in casa l’acqua e l’energia elettrica fossero scarsi e che per loro fosse molto difficile raggiungere l’ospedale più vicino a causa dei check-points. L’armoniosa normalità della mia famiglia adottiva palestinese era la loro risposta (per me ispirante e commuovente) alla complessità del vivere quotidiano ridotto all’osso della sopravivenza. Questo articolo lo dedico ad Abeer Abu Hamad, la figlia di Tisser che a 17 anni vorrebbe studiare per far il medico, con la speranza che la dolcezza della sua giovane anima, il suo sorriso pieno d’intelligenza e i suoi sogni d’adolescente non vengano spezzati o schiacciati dal muro di una sterile occupazione. Inshallah!

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