domenica, giugno 29, 2008
Benedetto XVI sottolinea la missione dei due apostoli e quella della sede di Roma, per sottolineare l’unità e l’universalità della fede cattolica. Presente anche Bartolomeo I il patriarca di Costantinopoli, a Roma per l’avvio dell’Anno Paolino. Il pontefice ha consegnato a 40 arcivescovi il pallio, segno della “cura” di Cristo per l’umanità e della comunione collegiale con il papa.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Fianco a fianco con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, alla presenza di 40 arcivescovi metropoliti cattolici a cui ha consegnato il pallio, Benedetto XVI ha celebrato oggi nella basilica vaticana la liturgia della solennità dei santi Pietro e Paolo. Una liturgia ricca di simboli: il Patriarca greco-ortodosso siede affianco al pontefice cattolico; i Vangeli vengono proclamati da due diaconi, quello greco-ortodosso e latino e fanno baciare l’Evangeliario al pastore dell’altra confessione; il Credo viene proclamato insieme nella formula greca del simbolo niceno-costantinopolitano; lo scambio fraterno di pace fra il pontefice e il Patriarca. Unità e collegialità, “romanità” e universalità, ecumenismo e missione si intrecciano nelle parole di Bartolomeo I e in quelle del papa, mentre l’assemblea applaude a entrambi. Nessun rischio di ritualismo o di teologia astratta: tutte le sottolineature, le ricerche di unità teologiche e pastorali, il simbolo del pallio, la stessa memoria degli apostoli martiri sono in funzione della missione nel mondo, per “la pace” – come dice Bartolomeo I – o per far nascere, come dice il papa, “un nuovo genere di città che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini”.

Dopo la proclamazione del vangelo, Benedetto XVI introduce il discorso di Bartolomeo I, che sottolinea la profonda unità e amicizia che lega Costantinopoli (“la nuova Roma”) alla “antica Roma”. Afferma che il dialogo teologico “va avanti, al di là delle notevoli difficoltà che sussistono ed alle note problematiche” e spera che presto, “il più velocemente possibile”, si possa raggiungere la piena unità. Espressione di questo desiderio e di una unità già presente è la stessa visita a Roma per la festa dei santi apostoli – divenuta ormai una tradizione – della delegazione del Patriarcato. Quest’anno, ha voluto essere presente lo stesso Bartolomeo I per ricambiare la visita del papa a Costantinopoli l’anno scorso in novembre, ma soprattutto per varare insieme l’Anno Paolino nel 2000° anniversario della nascita di san Paolo. Bartolomeo I dice che anche per loro questo è “l’Anno dell’apostolo Paolo”, in cui la Chiesa d’oriente ha programmato pellegrinaggi a Roma e ai luoghi di attività dell’apostolo in Turchia (Efeso, Mileto, ecc.) e in Grecia, Rodi e Creta.

Nella sua omelia, il pontefice sottolinea anzitutto il valore di Roma, per essere il luogo del martirio dei due apostoli: “Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana”. E aggiunge: “Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come ‘luce aurea’, … come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi – Pietro e Paolo – fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini”.

Benedetto XVI si domanda “perché” Paolo e Pietro sono giunti a Roma. “L’andare a Roma [per Paolo] fa parte dell’universalità della sua missione come inviato a tutti i popoli. La via verso Roma, … è parte integrante del suo compito di portare il Vangelo a tutte le genti – di fondare la Chiesa cattolica, universale. L’andare a Roma è per lui espressione della cattolicità della sua missione. Roma deve rendere visibile la fede a tutto il mondo, deve essere il luogo dell’incontro nell’unica fede”.

Da parte sua, continua il papa, Pietro è colui che apre le porte dei pagani alla fede cristiana (v. l’episodio del centurione Cornelio, Atti 10). “Pietro – spiega il pontefice - ….lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola ‘catholica’. Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola ‘una’: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore”.

L’unità della Chiesa, garantita dal ministero di Pietro e dei suoi successori non è fine a se stessa, ma è una necessità per il mondo, sempre diviso: “Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, esistono oggi nel mondo modi nuovi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi. In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio – unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. È questa la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma”.

L’ultima parte dell’omelia è dedicata ai 40 arcivescovi che oggi prendono da lui il pallio, un collare di lana di agnello, che porta ricamate 5 croci (segno delle 5 piaghe di Cristo). Fra gli arcivescovi – da tutto il mondo – vi sono anche alcuni provenienti da diocesi asiatiche: mons Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme; John Hung Shan-Chuan di Taipei (Taiwan); John Lee Hiong Fun-Yityaw, di Kota Kinabalu (Malaysia); mons. Paolo Pezzi, da Mosca. L’arcivescovo di Patna, mons. William D’Souza, riceverà invece il pallio nella sua sede.

“Quando prendiamo il pallio sulle spalle – spiega il pontefice - quel gesto ci ricorda il Pastore che prende sulle spalle la pecorella smarrita, che da sola non trova più la via verso casa, e la riporta all’ovile”. Ma Gesù Cristo “vuole avere anche degli uomini che ‘portino’ insieme con Lui” l’umanità smarrita.

“Il pallio – egli aggiunge - diventa simbolo del nostro amore per il Pastore Cristo e del nostro amare insieme con Lui – diventa simbolo della chiamata ad amare gli uomini come Lui, insieme con Lui: quelli che sono in ricerca, che hanno delle domande, quelli che sono sicuri di sé e gli umili, i semplici e i grandi; diventa simbolo della chiamata ad amare tutti loro con la forza di Cristo e in vista di Cristo, affinché possano trovare Lui e in Lui se stessi”.

Il pallio, aggiunge infine, è segno di collegalità, di unità fra tutti i vescovi e con il papa: “Nessuno è Pastore da solo. Stiamo nella successione degli Apostoli solo grazie all’essere nella comunione del collegio, nel quale trova la sua continuazione il collegio degli Apostoli. La comunione, il ‘noi’ dei Pastori fa parte dell’essere Pastori, perché il gregge è uno solo, l’unica Chiesa di Gesù Cristo. E infine, questo ‘con’ rimanda anche alla comunione con Pietro e col suo successore come garanzia dell’unità”. (continua a leggere)


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