All’Aja hanno un conto aperto con il continente nero?
PeaceReporter - La richiesta di un mandato di cattura internazionale contro il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, emessa dal Procuratore della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, per i presunti crimini di guerra commessi in Darfur, ha scatenato, come prevedibile, un vespaio di polemiche. I sostenitori della colpevolezza del presidente gridano alla vittoria, quasi che la condanna fosse già stata emessa, mentre i suoi difensori accusano Ocampo di essere un burocrate al soldo degli Occidentali. Constatato che il dare patenti di colpevolezza (o innocenza) a priori non è solo un vizio del Belpaese, questo articolo non intende aggiungersi alla già ampia ridda di polemiche, queste sì politiche, sulla vicenda, ma vuole soffermarsi su due importanti questioni finora trascurate dagli opinionisti. Il primo punto riguarda il modo in cui la Cpi ha ottenuto la giurisdizione sul Darfur, visto che il Sudan non è tra i 106 stati che hanno ratificato il Trattato di Roma, istitutivo della Corte. Il caso è stato trasmesso al Procuratore con la risoluzione 1593/2005 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il quale ha ritenuto che perseguire i crimini di guerra in Darfur fosse fondamentale per il raggiungimento di una pace duratura nella regione.
Ciò significa che la decisione è stata presa con l’avallo, tacito o esplicito, dei cinque membri permanenti del Consiglio, tre dei quali (Usa, Russia e Cina) non hanno ratificato il Trattato di Roma e non riconoscono la giurisdizione della Corte sul proprio territorio. E, grazie al potere di veto, sono immuni dall’appiglio legale utilizzato nei confronti del Sudan.
Arrogarsi il diritto di passare sopra la sovranità di uno Stato non è una decisione condannabile a priori, se fondata su gravi motivi come possono essere i crimini in Darfur, ma a condizione di essere tutti sullo stesso piano. Che alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (la Russia votò a favore della risoluzione, Usa e Cina si astennero) possano decidere di far giudicare i membri di uno Stato da una Corte a cui non riconoscono la giurisdizione su se stessi non è solo un controsenso politico. Uno dei princìpi cardine del diritto internazionale è la parità giuridica tra gli stati. Sancire l’esistenza, in termini legali, di una serie A di pochi eletti è un precedente pericoloso, perché mina la credibilità e le basi stesse su cui si basano i poteri della Corte e dell’Onu.
Ma c’è un altro dato interessante che riguarda l’operato della Corte. Finora, gli incriminati sono tutti africani: cinque congolesi, quattro ugandesi e due sudanesi. La cosa non è sfuggita all’opinione pubblica del continente, stanca di essere l’osservato speciale della Corte. Certo, gli undici finiti alla sbarra hanno tutti, in un modo o nell’altro, preso parte a conflitti. E, a parte il Sudan, negli altri tre stati coinvolti (Repubblica Centrafricana, Uganda e Repubblica Democratica del Congo) la Corte è intervenuta su richiesta dei rispettivi governi. Ma perché non perseguire anche i crimini di guerra commessi in Colombia, in Iraq o in Nepal?
In questi primi anni di vita, la Cpi ha dovuto mantenere un difficile equilibrio: da un lato perseguire i criminali di guerra per dare una prova tangibile della sua autorità ma, allo stesso tempo, scegliere obiettivi non troppo in vista per evitare complicazioni politiche che ne minassero il futuro. Per queste ragioni l’Africa, teatro di guerre spesso prive di un grande risalto internazionale e scoppiate in stati diplomaticamente deboli, si presta ad essere un test abbastanza probante ma a basso rischio.
Intendiamoci, nessuno sta mettendo in dubbio l’utilità della Corte dell’Aja. La sua nascita è una pietra miliare per la tutela dei diritti umani in tempo di guerra. E gli undici casi in questione potrebbero contribuire a migliorare la situazione dei diritti umani in Africa. Proprio per questo, però, sarebbe ora che la Cpi si interessasse anche delle altre emergenze mondiali. Così toglierebbe un alibi a chi vuole sminuirne il ruolo accusandola di guardare solo alle malefatte degli africani.
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