Ruhmina, vestita con gli abiti tradizionali delle nozze, parte dal suo villaggio per la wara, la processione di donne e bambini di entrambe le famiglie che accompagna la sposa nella sua nuova casa. Dopo due ore di cammino, il corteo valica un passo tra i boschi, quando il canto delle donne viene interrotto: un’esplosione, e poi un’altra, e un'altra ancora. Quando gli aerei da guerra della Nato se ne vanno, a terra rimangono 47 corpi dilaniati di donne e bambini. Tra questi anche quello di Ruhmina
PeaceReporter - Dopo essere rimasto vedovo, Lal Zareen non aveva più una donna che governasse la casa e cucinasse per lui e i suoi figli. L’unica figlia femmina, infatti, era destinata ad andare a vivere a casa del marito non appena si fosse sposata. Quindi gli non rimaneva che combinare subito un matrimonio di scambio per portare in casa una donna che ci sarebbe rimasta. Così Lal ha dato sua figlia in cambio di una moglie per suo figlio maggiore Attiqullah, di 15 anni. Il nome della promessa sposa era Ruhmina. Lei e il figlio di Lal non si erano mai visti né conosciuti perché vivevano in due valli diverse.
La wara. Domenica mattina, Ruhmina, vestita con gli abiti tradizionali delle nozze, parte dal suo villaggio per la wara, la processione di donne e bambini di entrambe le famiglie che accompagna la sposa nella sua nuova casa, quella del suo futuro marito, intonando canti augurali. Dopo due ore di cammino, il corteo valica un passo tra i boschi, quando il canto delle donne viene interrotto da un’esplosione. Urla, panico. Le donne fuggono in una nuvola di polvere. Un’altra esplosione e un’altra ancora. Quando gli aerei da guerra della Nato se ne vanno, a terra rimangono quarantasette corpi dilaniati di donne e bambini. Tra questi anche quello di Ruhmina.
Il massacro.“Ero a casa che aspettavo con mio figlio quando ho sentito le bombe”, racconta Lal. “Sono corso sulla montagna e mi sono trovato davanti una scena tremenda: pezzi di corpi e brandelli di carne erano sparsi nei prati e tra gli alberi. Mio figlio è ancora sotto shock”. Attiqullah se ne sta chiuso in casa, accanto al padre, ripetendo: “Oggi è il suo matrimonio, la mia sposa sta per arrivare e poi sarò pronto a ricevere le vostre congratulazioni”.“Portate questi a Karzai”, urla un vecchio indicando una pila di vestiti da festa inzuppati di sangue. “Ditegli sono il regalo delle donne che lo avevano votato, per ricambiare il dono che lui ci ha fatto mandandoci le bombe dei suoi amici stranieri”.
La rabbia. “Se gli stranieri che hanno commesso questo massacro non verranno puniti – minaccia Malek Jabar, un capo tribù del posto – non ci rimarrà altro che passare con la resistenza per vendicare le nostre donne e i nostri figli”. “Finora abbiamo tenuto sotto controllo il tratto di confine di nostra competenza – gli fa eco un altro capo locale, Malek Zarbaz – ma se non otterremo giustizia per questo crimine le cose cambieranno”. “O ci consegnano i responsabili così li possiamo impiccare oppure Karzai si deve dimette”, urla un altro anziano Rai Khan. “Se non succede né questo né quello, ci faremo giustizia da soli”.
Epilogo. I comandi Nato hanno negato la strage, dichiarando che le vittime erano tutti combattenti e che le accuse di vittime civili sono la solita propaganda talebana. Karzai non ha rilasciato dichiarazioni, ma il governo di Kabul ha subito inviato una delegazione a Khetai. “Quando siamo arrivati sul luogo del bombardamento abbiamo potuto verificare che qui non c’erano combattenti: le vittime erano tutti civili”, ha dichiarato Borhanullah Shinwari, un membro della delegazione. “I responsabili devono essere perseguiti perché la pazienza di questa gente è finita: non possono più tollerare tutto questo”.
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