lunedì, agosto 04, 2008

Mehwar significa baricentro, ma per le palestinesi vittime di abusi significa speranza.

PeaceReporter - Ghadeer, Suzan, Lina, Inas, Amira, Feda, Bahia, Dalal, Nisreen, Noha, Rania, Habela, Marleen, Neven, Rana, Gherda. Sono le ospiti del centro antiviolenza Mehwar, di Beit Sahour, cittadina ai piedi di Betlemme. Ragazze dai 15 ai 30 anni, scuri occhi tristi e sguardi duri, accomunate da terribili storie di violenza, soprattutto da parte dei padri, ma anche da altri familiari e dai mariti. Ma queste giovani donne oggi condividono anche il fatto di aver trovato un centro, il proprio centro dentro di sé che si rafforza con la condivisione e la solidarietà; un baricentro insomma: questo del resto il significato letterale della parola Mehwar. “Il centro è stato aperto nel febbraio dal 2007, grazie al sostegno del ministero affari sociali dell’ANP, della cooperazione italiana e del centro antiviolenza Differenza Donna di Roma” spiega Najin, una delle operatrici, “è una risorsa molto importante, poiché l’unica soluzione che l’ANP aveva per le donne abusate era la prigione”. Sembra assurdo, ma una donna vittima di abuso che scappa o che denuncia, normalmente non trova sostegno nella società, e l’Autorità Palestinese per ora è capace di mettere a disposizione solo i luoghi più sicuri che dispone, le prigioni appunto.

Fortunatamente oggi una alternativa c’è, ed è appunto Mehwar, che finora ha ospitato 79 donne, provenienti da tutta la Cisgiordania. La maggior parte dei casi è di incesto, quindi di padri che violentano le proprio figlie, di solito quando queste hanno tra i 6 e i 12 anni, praticando preferibilmente violenza anale perché così, nella perversione del loro ragionamento e delle regole patriarcali che li sostengono, queste bambine restano vergini, quindi ancora idonee per essere immesse sul mercato dei matrimoni e smerciate al miglior offerente. E’ ciò che è successo a Dalal, una delle ospiti del centro, venduta a 12 anni in sposa ad un uomo di 50 anni, e, dopo un anno, tolta al marito dal padre che l’ha ceduta ad un altro uomo, ovviamente in cambio di una cospicua somma, con il nome della sorella. Questo secondo marito, uno spacciatore, ha violentato e picchiato Dalal per molti anni, fino a che lei ha trovato il coraggio di scappare con i suoi 4 bambini.

“Sull’esempio dei padri” prosegue Najin, anche fratelli o altri parenti abusano delle bambine, consapevoli delle protezione famigliare e sociale di cui godono: se una bambina riesce a trovare il coraggio di raccontare alla madre, o alle donne della famiglia, la violenza subita, spesso riceve l’ordine di tacere per non macchiare l’onore del clan. “Dopo i famigliari vengono i mariti” aggiunge Najin, e questo di solito accade alle ragazze dai 15 anni in su. Qui sono arrivate mogli che hanno subito violenza fisica, psicologica, economica per anni e che poi, magari anche dopo vent’anni, hanno avuto il coraggio di venire a Mehwar. Infine ci sono anche ragazze che vogliono sposare un ragazzo scelto da loro e quindi si rivolgono al centro per essere sostenute in questa scelta anti-tradizionale.

Il centro è un edificio formato da due blocchi uno con i servizi, l’altro con le case. I servizi offerti sono di tipo assistenziale: consulenza psicologica, medica e legale, ma anche ludica e sociale; ci sono un nido per i bambini, una palestra, aperta anche alle donne della zona, e una caffetteria che è diventata luogo di ritrovo anche per le donne che non vivono nel centro. Il secondo blocco è formato dalle casette dove vivono le ragazze: stanze da letto che variano a seconda del numero dei figli, soggiorno e tutti i confort della società moderna, dalla lavatrice a internet. Ci sono poi anche gli spazi in condivisione, poiché a Mehwar il metodo di vita è comunitario: le faccende domestiche sono svolte a rotazione da tutte le donne, che di volta in volta si occupano delle pulizie, dei pasti, del giardino, ma anche dell’organizzazione dei corsi di inglese, informatica, ceramica. Una volta a settimana c’è un momento assembleare in cui vengono discusse tematiche quali la figura del padre, l’amore, la libertà, lo studio, per lavorare assieme al cambiamento di se stesse.

Se all’interno il clima è di armonia e solidarietà ben diverso è il rapporto con l’esterno che è “uno dei punti più problematici” spiega Amina, un’altra delle operatrici: “le nostre ospiti all’inizio erano viste come dei mostri, solo perché avevano lasciato la famiglia e il ruolo delle tradizioni e dei clan familiari è ancora di primaria importanza nella nostra società. Però piano piano siamo riuscite a smantellare questo pregiudizio” conclude Amina “aprendo il centro alla comunità di Beit Sahour e di Betlemme e ora tre ragazze che stanno per lasciare Mehwar stanno cercando casa assieme, fatto pressoché inimmaginabile qui. Le vite di queste donne grondano di dolore, rabbia, ma anche di speranza, come dimostra il caso di Inas, 22 anni, un corpo massiccio che cozza contro la dolcezza del viso e della voce: “dalla mia vita vorrei cancellare il ricordo della violenza di mio padre, e del bambino che mi ha fatto mettere al mondo”; Inas ha poi abbandonato questo figlio e ha iniziato a studiare medicina per potere essere utile alle donne che, come lei, hanno subito violenza.

Lina, velo di pizzo nero sul capo, esile e fredda, si ritiene fortunata “perché in questo centro ho trovato aiuto e solidarietà che mi permette oggi di affrontare il passato con forza e avere il coraggio di vivere il futuro”. Lina è una di quelle ragazze che oltre alla violenza del padre, subita dall’età di 14 anni, ha dovuto fare i conti anche con l’omertà della madre, che le ha ordinato di tacere e “questa è una delle cose più brutte della mia vita”. Nonostante tutto Lina sa ancora apprezzare i fatti positivi, come lo studio, il lavoro, e l’opportunità di potere vivere con la sorella, anch’essa ospite del centro. “Non pensavo di trovare il coraggio di denunciare” ammette la piccola Feda, dalle gambe corte corte a causa di una malattia, violentata da un suo vicino di casa. “Invece grazie a Mehwar l’ho trovato, sono andata in tribunale e sono davvero fiera di averlo fatto, vorrei che tutte le donne denunciassero e che la legge facesse finalmente giustizia”.

Giustizia: questa la domanda avanzata da queste giovani e il loro esempio e’ una lezione per tutte e tutti noi: se ancora non si possono evitare, in tutto il mondo però queste violenze si possono combattere; è ciò che sta facendo Amira, che da pochi giorni ha lasciato Mewhar per andare a vivere con i suoi quattro figli in una casa nelle vicinanze, e che in tribunale è riuscita ad ottenere la custodia dei suoi bambini, fatto non comune da queste parti, mentre sta ancora lottando per vincere anche il processo per stupro. Ogni causa vinta è un precedente per le altre donne, che le sprona a denunciare, a battersi per ottenere giustizia e, soprattutto, per iniziare una vita all’insegna dell’autodeterminazione, parola forse un poco stantia alle orecchie di noi occidentali ma che invece ha ancora, qui e non solo, un significato concreto e molto attuale. Non usa questo termine, Hadir, ma il senso è proprio quello, vale a dire la libertà di scegliere la proprio vita: “prima di venire a Mehwar avevo paura di tutti ed ero sempre sottomessa. Qui ho imparato a dire NO, e sarei capace di dirlo anche al primo ministro se mi ordinasse di fare qualche cosa che non voglio!”. Con questa forza Hadir e’ ora pronta per lasciare Mehwar e dalla situazione protetta del centro passare nuovamente alla vita nella società, sicuramente più dura ma pure più stimolante, anche in termini di sfide da vincere.

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