Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi, circa settecentomila euro al giorno spesi solo dalle Nazioni Unite. Ma tra i cittadini della Sierra Leone non se ne è accorto nessuno.
PeaceReporter - L'unica cosa che di internazionale ha l'aeroporto di Freetown è un ridicolo pulmino che trasporta i passeggeri nei venti metri che separano l'aeromobile dall'ingresso. Usciti dal minuscolo aeroporto, non si viene avvolti dal tipico caldo umido dei paesi centrafricani. Di più: la Sierra Leone è il paese dove piove di più al mondo. Quattro metri d'acqua all'anno contro i settanta centimetri italiani. Appena fuori dall'aeroporto, una strada sterrata e piena di voragini dovrebbe portare i viaggiatori e i turisti in città. Già, i turisti, perché stando ai cartelloni che si vedono in ogni dove, il turismo dovrebbe essere nelle intenzioni del governo una delle principali fonti di attrazione in questo paese.
Dopo pochi metri, Demba, l'autista del pulmino, non si scompone più che tanto per il fatto che il motore si sia spento e non dia più segni di vita nel mezzo di una pozza d'acqua gigante, rossa come la terra della Sierra Leone, e parecchio profonda. Sospira e sorride ai passanti e ai ciclisti. Nel raggio di un centinaio di metri, tanto permette lo sguardo davanti e dietro, di automobili ferme o mosse ma a spinta ce ne sono altre quattro.
Sarebbe tutto normale, le strade a pezzi, la mancanza di strutture, la mancanza di servizi. In fondo siamo in Africa, e per giunta in un paese africano appena uscito da una guerra devastante. Stanno lì a ricordarcelo in quell'angolo di aeroporto, appena fuori dov'è consentito fumare, i mutilati che chiedono una dignitosa e per nulla insistente carità che non può ripagare braccia e gambe che hanno lasciato all'assurdità di un conflitto durato oltre dieci anni.
Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone non fosse stata teatro, oltre che della guerra, anche della più impegnativa missione delle Nazioni Unite mai concepita e realizzata nella storia. Impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico. Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi, circa settecentomila euro al giorno spesi solo dalle Nazioni Unite, senza contare l'impegno dei singoli paesi, dall'Italia agli Stati Uniti. E le migliaia di Organizzazioni non governative, attirate come api al miele del danaro. Con i loro migliaia di progetti, uffici, logisti, esperti e consulenti di questo e di quello.
Oggi di quelle Ong non ce ne sono quasi più. Perché le Nazioni Unite hanno finito la loro missione, e sono finiti i soldi pubblici assegnati quasi senza controlli. Un fiume di denaro mostruoso che non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo non lo si riesce a vedere subito: Free-town ci accoglie con l'accompagnamento di un temporale impressionante, che riduce la visibilità a pochi centimetri. Ma qualcosa si intuisce subito: la missione delle Nazioni Unite, che tanto danaro è costata, non ha lascato nemmeno un collegamento tra l'aeroporto e la città, che dev'essere raggiunta in elicottero, oppure con il servizio di hovercraft che attraversano il golfo portando i nuovi arrivati, finalmente, vicini al centro città.
Freetown, in centro, assomiglia un poco a New Orleans. Non a quella famosa per il blues e le passegiate, ma a quella post alluvione. Le strade sono tutte disfatte, le case cadenti, la povertà strutturale non lascia spazio nemmeno alla fantasia di quei quasi due milioni di abitanti costretti a vivere in una città che, nonostante i settecentomila euro spesi ogni giorno, ancora in gran parte non ha nemmeno l'elettricità.
Mohammed ha venticinque anni. È lui il Caronte che ci traghetta verso l'inferno con cui gli abitanti di Freetown convivono. "Dietro le colline che circondano la capitale, a Bumbuna, dovrebbe presto essere ultimata la costruzione di una centrale elettrica cominciata vent'anni fa. Dovrebbe portare la luce a tutta la città - ci spiega - ma solo durante e subito dopo la stagione delle piogge, quando l'acqua scorre potente. Da quel che dicono chi l'ha progettata non ha tenuto conto del fatto che per sei mesi all'anno non piove. Non ci sono bacini di raccolta. E dunque se non piove, niente luce". La centrale intermittente è un'opera imponente e ovviamente costosissima, circa duemilacinquecento milioni di euro, costruita dagli italiani.
Ma non manca solo la luce, a Freetown manca anche l'acqua. Nel paese in cui piove di più al mondo, un milione e mezzo di persone sono costrette a lavarsi e a prendere l'acqua per far da mangiare nei tanti fiumiciattoli che attraversano la città. Ma non c'è disperazione, né rabbia in questa miseria. E' al ritmo del reggae e del calipso che le donne, coperte di stoffe coloratissime e sgargianti, e anche gli uomini vanno a lavare i panni nei rivoli. Quelli più fortunati, in collina, hanno l'acqua pulita. Ma non ci sono fogne e tantomento c'è chi raccoglie la spazzatura. E a valle, dove vive la maggior parte delle persone, verso un mare che potrebbe essere invidiato nelle più gettonate isole tropicali, i panni vengono lavati e le pentole riempite in mezzo al pattume, in quegli stessi rivoli dove, qualche centinaio di metri più su, altri hanno gettato gli avanzi del cibo, l'immondizia di casa e anche pulito le lattrine. Per bere, i ricchi usano le bibite e l'acqua minerale, che costa più della cocacola. Gli altri, comperano l'acqua dai venditori di strada. Sono studenti, di solito, e trasportano sulla testa, sgattaiolando in un traffico di catorci perennemente congestionatoe clacsonante, grandi cesti di sacchettini da circa mezzo litro di acqua fresca che viene venduta per pochi spiccioli.
Proprio vicino al mare c'è uno "stabilimento" dove l'acqua viene imbustata. Decine di donne con grandi mastelli prendono l'acqua che a momenti alterni sgorga dalle tubature dell'acuqedotto di Freetown e la filtrano passandola da un mastello ad un altro, ricoperto da un telo di stoffa che raccoglie le impurità. Le donne sono capitanate da Josef, il boss. "Faccio questo mestere da dieci anni - racconta - e la mia acqua è pulita, la compro da Guma (la società che gestisce l'acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere nei sacchetti. Però, anche durante la stagione delle pioggie, l'acqua manca spesso" aggiunge sorridendo tra il rassegnato e il furbo. "Ma da quando ci sono state le elezioni l'acqua c'è sempre, e così anche l'elettricità, dove arriva. E riesco a fare più di quattromila sacchetti al giorno".
Come Josef, sono in molti a puntare sul dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma, il candidato che ha puntato tutto sulla devastante corruzione del governo che lo aveva preceduto. Per lui si era schierata la società civile di Freetown, a prescindere dai gruppi etnici a cui apparteneva. "Quelli che c'erano prima si sono rubati tutto, speriamo che adesso le cose vadano meglio", conclude Josef.
Vicino a Waterloo street (tutte le strade di Freetown portano nomi molto british) scorre uno di questi "fiumi" cittadini. Dalla collina scende ripido, a volte allo scoperto a volte entro gigantesche tubature di cemento. Mano a mano che l'acqua si avvicina al mare, è sempre più contaminata. Al punto che, dove ci fermiamo noi, pochi mesi fa la spazzatura ha creato una vera e propria diga, che dopo qualche tempo ha ceduto scaricando sulle poche case e sulle molte baracche circostanti tutto il suo peso. Adesso, intorno a noi stanno piano piano ricostruendo, a colpi di cartone e di qualche lamiera trovata in giro, baracche dove vivere. Stride il contrasto tra le divise dei bambini che vanno e vengono da scuola, per ognuna delle quali c'è un colore distintivo, e lo sporco, il fango, l'odore di malattia che si respira.
Proprio davanti a noi, una cascatella dove gli abitanti della zona vengono a far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda lungo la main street di questa improvvisata baraccopoli andando a raccogliere le deiezioni dei suoi abitanti e portando il tutto verso l'oceano, verso altre e se possibile più misere baracche. Al contrario di quel che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, a Freetown più ci si avvicina al mare e più si sprofonda nella miseria.
Ma è una miseria strana, quasi felice. Spesso a tempo di musica, certamente molto colorata, disperante più che disperata. Colorata come sono i container che fanno da bar vendendo sacchetti di acqua e bibite calde, come i vestiti di donne uomini e bambini, come i sorrisi che ti accolgono ovunque. Sotto la cascatella, un gruppo di ragazzini gioca nel rigagnolo. Ogni tanto, quando necessario, uno di loro si sottrae al gioco di chi riesce a saltar l'acqua senza bagnarsi e in un cantuccio si mette a far pipì. Che andrà, insieme a qualche cacca, a valle. Una donna ci raggiunge e ci racconta di quando la sua casa è stata spazzata via dalla furia dell'acqua. "Nessuno ci aiuta. Nessuno si occupa di noi. Nessuno si preoccupa del fatto che qui potrebbe essere una strage, se succede un'altra volta che la pattumiera formi una diga". Poco dopo arriva anche un ragazzo. "Sono il responsabile, qui, sono il capo. Che volete? Che ci fate? Non si possono fare fotografie". Ci vuole tutta la pazienza e la calma di Mohamed, per spiegare al gruppo di ragazzi che ci circonda che non siamo nemici. E che non siamo, come dice lui, "come quelli che negli anni passati venivano, promettevano tutto, facevano un sacco di domande, e poi sparivano". "Quelli" erano quelli delle Ong. Venivano, studiavano, costruivano sulla carta i progetti, se li facevano finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi e le sere sulla strada che costeggia la bellissima spiaggia di Freetown, ricca, fino a che sono state qui le Nazioni Unite, di ristoranti, night club, bar gestiti perlopiù da libanesi, e frequentati da puttane. Noi vogliamo solo raccontare, spieghiamo. Sperando che qualcuno legga e veda, e magari possa fare qualche cosa per loro. O per tutti gli altri che, come loro, sono stati presi in giro dagli "aiuti umanitari" delle grandi agenzie e delle Ong miliardarie. Ma capiamo in fretta che è meglio andarsene.
In riva al mare, dove un tempo c'era il porto dei pescatori della capitale nella zona della Kroo bay c'è una immensa baraccopoli. Arrivandoci, si viene avvolti da mille profumi: banane mature, pastella fritta, pesce cucinato su improvvisate griglie o fritto, ma anche da mille puzze. Sopra le quali spicca l'odore di Escherichia coli, un batterio che, insieme a quello della salmonella e al vibrione del colera, da queste parti non se la deve passar male. Le baracche sono strettissime l'una all'altra. Salvo nella piazza centrale, dove centinaia di ragazzi si trovano per giocare e fare musica. Mentre si disputano il pallone, il calcio è il gioco nazionale della Sierra Leone, il tramonto disegna i loro muscoli rendendo ancor più inverosimile il contrasto tra il misero e scarsio cibo di cui si nutrono, la sporcizia contaminante che da tutta la città cola verso la loro bidonville e i loro fisici da atleti e da modelle. Tra le baracche, proprio sopra un rigagnolo di fogna a cielo aperto, ne salta agli occhi una che per parete ha un ex sacco di riso arrivato come aiuto umanitario dall'Iraq post-Saddam. Poco più avanti, c'è la casa del dottore. È un medico tradizionale, Murah, e per arrivarci bisogna superare la diffidenza degli abitanti del quartiere e dei suoi collaboratori. Probabilmente siamo i primi bianchi, whiteman, ad essersi spinti fino a casa sua. Pima di essere ricevuti, facciamo in tempo a raggiungere la riva del mare. Andandoci, ci si accorge che gradualmente la terra su cui camminiamo si trasforma in spazzatura: una enorme discarica a cielo aperto per giunta contaminata dai percolati delle fogne e delle discariche che stanno più a monte: la fogna della fogna. Dei maiali si bagnano nell'acqua salmastra e salmonellosa che, solo un centinaio di metri più al largo riesce ancora a sembrare mare. Ma il movimento che si nota non è quello dei maiali, che non portano magliette colorate: sono gli abitanti di Kroo Bay che vengono fin qui a cercare qualcosa di ancora utilizzabile o vendibile in mezzo al liquame.
Nell'oscurità della sua baracca, in una stanzetta di due metri per due senza finestre e con le porte chiuse, Murah ci mostra con orgoglio i suoi diplomi, rilasciati da diversi ministeri della Sierra Leone e della Lilberia. Dietro di lui, una raccolta di audiocassette, stereo portatile e vari strumenti da "stregone": pezzi di corno, frammenti di ossa, sacchetti di cuoio dall'aria antica. Tutti da queste parti ricorrono alle sue cure, fatte di erbe, corteccie e infusi vari. Ma soprattutto fatte di saggi consigli, come bollire l'acqua prima di usarla per qualsiasi cosa abbia a che fare col corpo e allontanarsi dalle "case" per fare pipì. Tutti ricorrono alle sue cure soprattutto perché in questo paese nessuno può curarsi in ospedale dove tutto è a pagamento, dall'ingresso alle medicine, che devono essere portate da fuori. "Le malattie più diffuse - spiega Murah - sono quele legate all'intestino e allo stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma anche la malaria è un problema". Le statistiche dicono che quasi trecento bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Ma il sospetto, girando per la capitale e per la Sierra Leone, è che le statistiche siano davvero impossibili da fare, e l'entità del problema sia decisamente maggiore. "Molta gente muore per le cose più stupide - dice ancora il dottore - e le erbe che raccogliamo in questa zona non sono più efficaci per le cure. Quando ci sono emergenze importanti, mando i pazienti negli ospedali. Ma solo per entrare in ospedale ci vogliono quindicimila leoni". Sono tre euro o poco più, ma il guadagno medio delle famiglie non supera i tre-quattromila leoni al giorno. Viene spontaneo chiedersi perché gli abitanti della Sierra Leone debbano pagare per essere curati, soprattutto dopo essere passati dall'ospedale di Emergency, poco distante dalla capitale, un gioiellino di efficacia ed efficenza del tutto gratuito. Anche perché gli ospedali e le strutture sanitarie sono state pagate con i soldi delle Nazioni Unite. La spiegazione ce la fornisce Ibrahim Korona, studente e tassista: "È la politica della Banca Mondiale, che prevede l'autosostentamento delle strutture. Ma come si può pensare che un ospedale possa autosostenersi? Il diritto alla salute non è uno dei diritti fondamentali dell'uomo?".
PeaceReporter - L'unica cosa che di internazionale ha l'aeroporto di Freetown è un ridicolo pulmino che trasporta i passeggeri nei venti metri che separano l'aeromobile dall'ingresso. Usciti dal minuscolo aeroporto, non si viene avvolti dal tipico caldo umido dei paesi centrafricani. Di più: la Sierra Leone è il paese dove piove di più al mondo. Quattro metri d'acqua all'anno contro i settanta centimetri italiani. Appena fuori dall'aeroporto, una strada sterrata e piena di voragini dovrebbe portare i viaggiatori e i turisti in città. Già, i turisti, perché stando ai cartelloni che si vedono in ogni dove, il turismo dovrebbe essere nelle intenzioni del governo una delle principali fonti di attrazione in questo paese.
Dopo pochi metri, Demba, l'autista del pulmino, non si scompone più che tanto per il fatto che il motore si sia spento e non dia più segni di vita nel mezzo di una pozza d'acqua gigante, rossa come la terra della Sierra Leone, e parecchio profonda. Sospira e sorride ai passanti e ai ciclisti. Nel raggio di un centinaio di metri, tanto permette lo sguardo davanti e dietro, di automobili ferme o mosse ma a spinta ce ne sono altre quattro.
Sarebbe tutto normale, le strade a pezzi, la mancanza di strutture, la mancanza di servizi. In fondo siamo in Africa, e per giunta in un paese africano appena uscito da una guerra devastante. Stanno lì a ricordarcelo in quell'angolo di aeroporto, appena fuori dov'è consentito fumare, i mutilati che chiedono una dignitosa e per nulla insistente carità che non può ripagare braccia e gambe che hanno lasciato all'assurdità di un conflitto durato oltre dieci anni.
Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone non fosse stata teatro, oltre che della guerra, anche della più impegnativa missione delle Nazioni Unite mai concepita e realizzata nella storia. Impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico. Quasi due miliardi di euro dal 1999 ad oggi, circa settecentomila euro al giorno spesi solo dalle Nazioni Unite, senza contare l'impegno dei singoli paesi, dall'Italia agli Stati Uniti. E le migliaia di Organizzazioni non governative, attirate come api al miele del danaro. Con i loro migliaia di progetti, uffici, logisti, esperti e consulenti di questo e di quello.
Oggi di quelle Ong non ce ne sono quasi più. Perché le Nazioni Unite hanno finito la loro missione, e sono finiti i soldi pubblici assegnati quasi senza controlli. Un fiume di denaro mostruoso che non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo non lo si riesce a vedere subito: Free-town ci accoglie con l'accompagnamento di un temporale impressionante, che riduce la visibilità a pochi centimetri. Ma qualcosa si intuisce subito: la missione delle Nazioni Unite, che tanto danaro è costata, non ha lascato nemmeno un collegamento tra l'aeroporto e la città, che dev'essere raggiunta in elicottero, oppure con il servizio di hovercraft che attraversano il golfo portando i nuovi arrivati, finalmente, vicini al centro città.
Freetown, in centro, assomiglia un poco a New Orleans. Non a quella famosa per il blues e le passegiate, ma a quella post alluvione. Le strade sono tutte disfatte, le case cadenti, la povertà strutturale non lascia spazio nemmeno alla fantasia di quei quasi due milioni di abitanti costretti a vivere in una città che, nonostante i settecentomila euro spesi ogni giorno, ancora in gran parte non ha nemmeno l'elettricità.
Mohammed ha venticinque anni. È lui il Caronte che ci traghetta verso l'inferno con cui gli abitanti di Freetown convivono. "Dietro le colline che circondano la capitale, a Bumbuna, dovrebbe presto essere ultimata la costruzione di una centrale elettrica cominciata vent'anni fa. Dovrebbe portare la luce a tutta la città - ci spiega - ma solo durante e subito dopo la stagione delle piogge, quando l'acqua scorre potente. Da quel che dicono chi l'ha progettata non ha tenuto conto del fatto che per sei mesi all'anno non piove. Non ci sono bacini di raccolta. E dunque se non piove, niente luce". La centrale intermittente è un'opera imponente e ovviamente costosissima, circa duemilacinquecento milioni di euro, costruita dagli italiani.
Ma non manca solo la luce, a Freetown manca anche l'acqua. Nel paese in cui piove di più al mondo, un milione e mezzo di persone sono costrette a lavarsi e a prendere l'acqua per far da mangiare nei tanti fiumiciattoli che attraversano la città. Ma non c'è disperazione, né rabbia in questa miseria. E' al ritmo del reggae e del calipso che le donne, coperte di stoffe coloratissime e sgargianti, e anche gli uomini vanno a lavare i panni nei rivoli. Quelli più fortunati, in collina, hanno l'acqua pulita. Ma non ci sono fogne e tantomento c'è chi raccoglie la spazzatura. E a valle, dove vive la maggior parte delle persone, verso un mare che potrebbe essere invidiato nelle più gettonate isole tropicali, i panni vengono lavati e le pentole riempite in mezzo al pattume, in quegli stessi rivoli dove, qualche centinaio di metri più su, altri hanno gettato gli avanzi del cibo, l'immondizia di casa e anche pulito le lattrine. Per bere, i ricchi usano le bibite e l'acqua minerale, che costa più della cocacola. Gli altri, comperano l'acqua dai venditori di strada. Sono studenti, di solito, e trasportano sulla testa, sgattaiolando in un traffico di catorci perennemente congestionatoe clacsonante, grandi cesti di sacchettini da circa mezzo litro di acqua fresca che viene venduta per pochi spiccioli.
Proprio vicino al mare c'è uno "stabilimento" dove l'acqua viene imbustata. Decine di donne con grandi mastelli prendono l'acqua che a momenti alterni sgorga dalle tubature dell'acuqedotto di Freetown e la filtrano passandola da un mastello ad un altro, ricoperto da un telo di stoffa che raccoglie le impurità. Le donne sono capitanate da Josef, il boss. "Faccio questo mestere da dieci anni - racconta - e la mia acqua è pulita, la compro da Guma (la società che gestisce l'acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere nei sacchetti. Però, anche durante la stagione delle pioggie, l'acqua manca spesso" aggiunge sorridendo tra il rassegnato e il furbo. "Ma da quando ci sono state le elezioni l'acqua c'è sempre, e così anche l'elettricità, dove arriva. E riesco a fare più di quattromila sacchetti al giorno".
Come Josef, sono in molti a puntare sul dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma, il candidato che ha puntato tutto sulla devastante corruzione del governo che lo aveva preceduto. Per lui si era schierata la società civile di Freetown, a prescindere dai gruppi etnici a cui apparteneva. "Quelli che c'erano prima si sono rubati tutto, speriamo che adesso le cose vadano meglio", conclude Josef.
Vicino a Waterloo street (tutte le strade di Freetown portano nomi molto british) scorre uno di questi "fiumi" cittadini. Dalla collina scende ripido, a volte allo scoperto a volte entro gigantesche tubature di cemento. Mano a mano che l'acqua si avvicina al mare, è sempre più contaminata. Al punto che, dove ci fermiamo noi, pochi mesi fa la spazzatura ha creato una vera e propria diga, che dopo qualche tempo ha ceduto scaricando sulle poche case e sulle molte baracche circostanti tutto il suo peso. Adesso, intorno a noi stanno piano piano ricostruendo, a colpi di cartone e di qualche lamiera trovata in giro, baracche dove vivere. Stride il contrasto tra le divise dei bambini che vanno e vengono da scuola, per ognuna delle quali c'è un colore distintivo, e lo sporco, il fango, l'odore di malattia che si respira.
Proprio davanti a noi, una cascatella dove gli abitanti della zona vengono a far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda lungo la main street di questa improvvisata baraccopoli andando a raccogliere le deiezioni dei suoi abitanti e portando il tutto verso l'oceano, verso altre e se possibile più misere baracche. Al contrario di quel che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, a Freetown più ci si avvicina al mare e più si sprofonda nella miseria.
Ma è una miseria strana, quasi felice. Spesso a tempo di musica, certamente molto colorata, disperante più che disperata. Colorata come sono i container che fanno da bar vendendo sacchetti di acqua e bibite calde, come i vestiti di donne uomini e bambini, come i sorrisi che ti accolgono ovunque. Sotto la cascatella, un gruppo di ragazzini gioca nel rigagnolo. Ogni tanto, quando necessario, uno di loro si sottrae al gioco di chi riesce a saltar l'acqua senza bagnarsi e in un cantuccio si mette a far pipì. Che andrà, insieme a qualche cacca, a valle. Una donna ci raggiunge e ci racconta di quando la sua casa è stata spazzata via dalla furia dell'acqua. "Nessuno ci aiuta. Nessuno si occupa di noi. Nessuno si preoccupa del fatto che qui potrebbe essere una strage, se succede un'altra volta che la pattumiera formi una diga". Poco dopo arriva anche un ragazzo. "Sono il responsabile, qui, sono il capo. Che volete? Che ci fate? Non si possono fare fotografie". Ci vuole tutta la pazienza e la calma di Mohamed, per spiegare al gruppo di ragazzi che ci circonda che non siamo nemici. E che non siamo, come dice lui, "come quelli che negli anni passati venivano, promettevano tutto, facevano un sacco di domande, e poi sparivano". "Quelli" erano quelli delle Ong. Venivano, studiavano, costruivano sulla carta i progetti, se li facevano finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi e le sere sulla strada che costeggia la bellissima spiaggia di Freetown, ricca, fino a che sono state qui le Nazioni Unite, di ristoranti, night club, bar gestiti perlopiù da libanesi, e frequentati da puttane. Noi vogliamo solo raccontare, spieghiamo. Sperando che qualcuno legga e veda, e magari possa fare qualche cosa per loro. O per tutti gli altri che, come loro, sono stati presi in giro dagli "aiuti umanitari" delle grandi agenzie e delle Ong miliardarie. Ma capiamo in fretta che è meglio andarsene.
In riva al mare, dove un tempo c'era il porto dei pescatori della capitale nella zona della Kroo bay c'è una immensa baraccopoli. Arrivandoci, si viene avvolti da mille profumi: banane mature, pastella fritta, pesce cucinato su improvvisate griglie o fritto, ma anche da mille puzze. Sopra le quali spicca l'odore di Escherichia coli, un batterio che, insieme a quello della salmonella e al vibrione del colera, da queste parti non se la deve passar male. Le baracche sono strettissime l'una all'altra. Salvo nella piazza centrale, dove centinaia di ragazzi si trovano per giocare e fare musica. Mentre si disputano il pallone, il calcio è il gioco nazionale della Sierra Leone, il tramonto disegna i loro muscoli rendendo ancor più inverosimile il contrasto tra il misero e scarsio cibo di cui si nutrono, la sporcizia contaminante che da tutta la città cola verso la loro bidonville e i loro fisici da atleti e da modelle. Tra le baracche, proprio sopra un rigagnolo di fogna a cielo aperto, ne salta agli occhi una che per parete ha un ex sacco di riso arrivato come aiuto umanitario dall'Iraq post-Saddam. Poco più avanti, c'è la casa del dottore. È un medico tradizionale, Murah, e per arrivarci bisogna superare la diffidenza degli abitanti del quartiere e dei suoi collaboratori. Probabilmente siamo i primi bianchi, whiteman, ad essersi spinti fino a casa sua. Pima di essere ricevuti, facciamo in tempo a raggiungere la riva del mare. Andandoci, ci si accorge che gradualmente la terra su cui camminiamo si trasforma in spazzatura: una enorme discarica a cielo aperto per giunta contaminata dai percolati delle fogne e delle discariche che stanno più a monte: la fogna della fogna. Dei maiali si bagnano nell'acqua salmastra e salmonellosa che, solo un centinaio di metri più al largo riesce ancora a sembrare mare. Ma il movimento che si nota non è quello dei maiali, che non portano magliette colorate: sono gli abitanti di Kroo Bay che vengono fin qui a cercare qualcosa di ancora utilizzabile o vendibile in mezzo al liquame.
Nell'oscurità della sua baracca, in una stanzetta di due metri per due senza finestre e con le porte chiuse, Murah ci mostra con orgoglio i suoi diplomi, rilasciati da diversi ministeri della Sierra Leone e della Lilberia. Dietro di lui, una raccolta di audiocassette, stereo portatile e vari strumenti da "stregone": pezzi di corno, frammenti di ossa, sacchetti di cuoio dall'aria antica. Tutti da queste parti ricorrono alle sue cure, fatte di erbe, corteccie e infusi vari. Ma soprattutto fatte di saggi consigli, come bollire l'acqua prima di usarla per qualsiasi cosa abbia a che fare col corpo e allontanarsi dalle "case" per fare pipì. Tutti ricorrono alle sue cure soprattutto perché in questo paese nessuno può curarsi in ospedale dove tutto è a pagamento, dall'ingresso alle medicine, che devono essere portate da fuori. "Le malattie più diffuse - spiega Murah - sono quele legate all'intestino e allo stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma anche la malaria è un problema". Le statistiche dicono che quasi trecento bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Ma il sospetto, girando per la capitale e per la Sierra Leone, è che le statistiche siano davvero impossibili da fare, e l'entità del problema sia decisamente maggiore. "Molta gente muore per le cose più stupide - dice ancora il dottore - e le erbe che raccogliamo in questa zona non sono più efficaci per le cure. Quando ci sono emergenze importanti, mando i pazienti negli ospedali. Ma solo per entrare in ospedale ci vogliono quindicimila leoni". Sono tre euro o poco più, ma il guadagno medio delle famiglie non supera i tre-quattromila leoni al giorno. Viene spontaneo chiedersi perché gli abitanti della Sierra Leone debbano pagare per essere curati, soprattutto dopo essere passati dall'ospedale di Emergency, poco distante dalla capitale, un gioiellino di efficacia ed efficenza del tutto gratuito. Anche perché gli ospedali e le strutture sanitarie sono state pagate con i soldi delle Nazioni Unite. La spiegazione ce la fornisce Ibrahim Korona, studente e tassista: "È la politica della Banca Mondiale, che prevede l'autosostentamento delle strutture. Ma come si può pensare che un ospedale possa autosostenersi? Il diritto alla salute non è uno dei diritti fondamentali dell'uomo?".
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