lunedì, maggio 11, 2009
Viaggio in Birmania tra i sopravvissuti al ciclone che uccise almeno 150 mila persone

PeaceReporter - Un anno è passato da quando Ma Gan, incinta di nove mesi, scappava panciuta dalla furia del ciclone, abbandonando la casa crollata, trovando riparo nella cisterna vuota del vicino. Due giorni dopo, tra i resti di una baracca, è nata Nargis: una bambina venuta alla luce in un mondo appena devastato, privo di acqua pulita, dove il riso marciva nei campi sommersi e le persone avevano perso tutto. Fu così che Ma Gan e la piccola Nargis trascorsero i giorni successivi alla devastazione del ciclone Nargis, in compagnia di familiari e conoscenti, sotto il riparo di una struttura semidistrutta. Sarebbero passati diversi giorni prima che una qualsiasi richiesta d'aiuto riuscisse a trapelare al mondo esterno. Nel frattempo la gente si nutriva con una specie di pappa di riso molliccio, un riso rimasto a mollo per giorni nei campi inondati di acqua salata, gremiti di corpi in decomposizione. "Dopo quattro o cinque giorni delle buone anime sono arrivate con la macchina e hanno lasciato sul bordo della strada cibo e vestiti", spiega il proprietario di quel fazzoletto di terra dove Ma Gan ed altre 30 persone trovarono riparo. Alcune organizzazioni umanitarie locali, insieme agli abitanti più benestanti, furono i primi a distribuire provviste, che però non durarono a lungo. "Gran parte dei soccorsi hanno smesso di arrivare dopo dieci giorni", continua il contadino, "dopodiché, per quattro settimane, ci siamo cibati solo di latte di cocco".

La risposta da parte della comunità internazionale è stata sbalorditiva. Quasi ogni paese del mondo ha donato somme altissime di denaro, alcune spedendo fisicamente i rifornimenti in navi cisterne e aerei carichi di viveri.
Le operazioni di distribuzione però furono ritardate di almeno tre settimane a causa delle rigide restrizioni da parte del governo che aveva bloccato i visti d'entrata per gli operatori umanitari stranieri. Fu solo dopo complesse pratiche burocratiche e pressioni da parte delle grandi Ong internazionali che i checkpoint, che non permettevano il passaggio degli stranieri, furono rimossi, permettendo la penetrazione dei primi aiuti.
Ma Gan e i suoi vicini, accampati di fianco alla strada che collega la ex capitale Yangon con Bogale, erano facilmente accessibili e furono tra i primi ad ottenere il riso, l'acqua, l'aglio, i vestiti e i medicinali donati dalle Ong.

Non tutti furono così fortunati, specie coloro che risiedono all'interno del complesso intreccio di canali e affluenti che formano il delta del fiume Irrawaddy. Questi villaggi, accessibili solo in barca, furono quelli più colpiti dall'inondazione provocata da Nargis e furono gli ultimi a ricevere aiuto.
"Dopo la tempesta, per venti giorni, siamo sopravvissuti solo grazie alle noci di cocco e al riso zuppo che siamo riusciti a salvare", racconta Beh Saw Oo, residente di Chong Sein Gi, un piccolo villaggio di bambù a sud di Bogale dove trecento dei suoi settecento abitanti furono spazzati via dal ciclone.
Il capo del villaggio, Ko Khin Maung Aye , quella notte ha perso la madre, il padre, la moglie, il figlio, una figlia, il fratello e l'intera famiglia del fratello. Fu in grado di salvare solo l'altra figlia, l'unica che riuscì a stringersi al corpo per non farsela portare via dal vento e dall'acqua. Lei oggi vive altrove, con i suoceri. Essendo comunque un proprietario terriero non ebbe accesso agli aiuti gratuiti. Ko Khin Maung Aye ricevette da parte del governo un prestito di semi di riso che dovette ripagare entro la fine dell'anno. "Se possiedi del terreno ti prestano i semi, altrimenti ti prestano dei soldi", spiega. "Io comunque ora sono solo, non ho bisogno di soldi per ricostruire la mia casa". Ha lo sguardo perso nel vuoto. "Ora sono rimasto solo con me stesso da accudire".

Vicino a Pyapong, un paesino dove Nargis si é impossessato di circa cinquemila vite, stanno lentamente ricostruendo il monastero che, nei giorni dopo il ciclone, ha dato riparo a oltre trecento persone. Tavole di legno marcio, statue sbriciolate e mucchi di mattoni frantumati rimangono a testimoniare la tragedia di un anno fa.
"Quella mattina la gente continuava ad arrivare. Venivano, venivano, finché il monastero fu completamente pieno", dice U War Ya Ma, abate del Thiak Kyaung Monastery. "Ma noi avevamo solo poco riso da dar loro". Il riso finì infatti dopo appena tre giorni.
Quattro donne, che avendo perso l'abitazione si trasferirono nel monastero, a distanza di un anno hanno ricostruito una struttura con le vaghe sembianze di una casa. "Abbiamo costruito questa casa con i pezzi di legno e di lamiera che abbiamo trovato per terra". Sugli aiuti dicono: "Tre settimane dopo qualcuno è venuto a portare delle provviste, ma non sapendo a chi distribuirle le ha lasciate davanti al cancello del monastero, se avevamo bisogno di qualcosa andavamo lì a prenderla", dice Paw Myint Kyi, la più anziana delle quattro.

Anche se gran parte degli abitanti dei villaggi ammette di aver ottenuto aiuti, ognuno in quantità diversa, alcuni si lamentano di aver ricevuto, in un anno, due sole buste di riso.
"Anche se Nargis ha distrutto qualsiasi cosa su cui si potesse posare occhio - dicono - la maggior parte di noi è riuscito a raccogliere i detriti e con quelli, in pochi mesi, ci siamo ricostruiti un rifugio".
Attraverso l'intera regione si possono ancora vedere i moncherini degli alberi caduti e i resti scheletrici delle case, ma s'intravedono anche muri ridipinti da poco che brillano di vernice fresca, tetti di lamiera nuovissima che luccicano al sole e tendoni di infiniti colori che espongono le sigle delle tante agenzie dell'Onu e Ong venute fin qui a distribuire il loro aiuto: Unicef, Undp, Wfp, World Vision, Msf, Croce Rossa Internazionale e molte altre.
I sorrisi e i saluti della gente testimonia l'amore per la vita e la forza di chi da sempre è abituato a vivere con poco. Ma questo non significa che la vita sia tornata a essere com'era.
Tutti ancora lottano, chi contro la malinconia verso i familiari morti, chi contro i risultati della perdita dell'unica attività di sostentamento.
"Prima avevamo una piccola sala da tè, ma la tempesta se l'è portata via", spiega Paw Myint Kyi. "Ora dobbiamo lottare per sopravvivere, giorno dopo giorno. La vita non è tornata affatto a essere come prima".
Solo i più benestanti sono riusciti a ridirigere lo sguardo verso il futuro, solo loro hanno avuto i mezzi per ricostruire una vita dignitosa.

Ogni incontro è permeato dal dolore dovuto dalla perdita di qualcuno di vicino.
Cinque bambini che per sopravvivere hanno sfidato le correnti fortissime dei canali, nuotando fino alla terra ferma, hanno perso entrambi i genitori. Il corpo del padre riemerse qualche giorno dopo e riuscirono a seppellirlo, quello della madre non fu mai ritrovato. "Abbiamo paura che arrivi un altro uragano - dicono - ma l'idea non ci fa venire gli incubi. Sogniamo invece i nostri genitori e quelli sono sempre sogni bellissimi".

Jennifer Cavagnol
e Gianrigo Marletta



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