lunedì, maggio 11, 2009
L'ultimo libro di Antonio Cassese, giurista e primo presidente del tribunale dell'Aja

PeaceReporter - Diritti umani, diritti naturali. Sinonimi istintivi. Ma ''le norme etiche esprimono un rifiuto dell'ordine biologico. Tacciano la selezione naturale di crudeltà, l'ineguaglianza naturale di ingiustizia. Esigono il rispetto dell'individuo, mentre nella storia naturale l'individuo non conta: la sopravvivenza della specie è l'unico disegno. Il concetto di diritti umani non si ispira alla legge naturale, al contrario: è ribellione contro quella legge''.

antonio casseseQuanto è comodo ancora, e quanto spesso, blindare le proprie rivendicazioni in una non meglio precisata natura umana, eterna, e indiscussa e universale, e dunque pronto scudo di ogni imperialismo - ''chi dice umanità, cerca di ingannarti'', avvertiva Carl Schmitt. E invece comincia così, contromano, non dal tempio di un filosofo ma dalla lama rasoterra di un biologo, l'antologia in cui Antonio Cassese racconta ''la battaglia per i diritti umani attraverso i suoi protagonisti''. Dalla consapevolezza che i diritti sono ''una conquista permanente''. Né trovati, né ricevuti: in una storia che è insieme nuove forme di potere, e parallele, nuove forme di oppressione, in cui ''non esiste una libertà perduta per sempre né per sempre conquistata'', i diritti sono ''una creazione quotidiana'': il regno non del glossatore, ma del dissidente. Perché la libertà è un gioco che si custodisce praticandolo - e ''se siete ancora vivi e graduati, non avete mai obiettato a nulla''.
E questa ribellione che nel Novecento si consolida rivoluzione - non ancora nel senso politico di sovversione dell'ordine costituito, ma comunque già nel senso copernicano di ribaltamento del punto di osservazione: dallo stato alla persona, dai governanti ai governati - è per Norberto Bobbio come la rivoluzione francese per Kant, il signum prognosticum del progresso morale dell'umanità. Quello stesso Bobbio che precisa appunto come il fondamento dei diritti umani non sia che solo storico e relativo, ancorato non a valori ultimi e assoluti, ma al consenso costruito nel 1948 sulla Dichiarazione Universale: in cui "avevamo dimenticato talune cose" - per esempio, consultare i musulmani, annota Cassese attraverso Eleanor Roosvelt, che della Dichiarazione fu tra i redattori. Perché il suo obiettivo è un universalismo "non dogmatico e a priori, ma sincretico e a posteriori, sempre imperfetto", un universalismo asciugato dal fondamentalismo, per tradurla con Franco Cassano: una cittadinanza cosmopolitica minima, contrappunto etico a una globalizzazione per ora solo di precarietà e rischi - non livellare via le diversità, ma vivere un giorno "tutti differenti senza paura". Perché davanti alla giustizia internazionale, è vero - come non pensare a una giustizia dei vincitori? L'immunità alla Nato per i crimini nei Balcani, l'esecuzione di Saddam Hussein, i nobili esercizi di giurisprudenza in lontane dittature africane in simultanea all'indifferenza per Gaza - ma Cassese è uno che si insedia alla guida del tribunale per il Libano, e il suo primo atto, la scarcerazione di quattro detenuti dopo anni ancora senza incriminazione, viene condiviso proprio da chi più ha temuto e criticato il processo Hariri come ennesima continuazione della guerra con altri mezzi. "Esteticamente, perdere è sempre più sicuro", suggeriva Chatwin: Cassese non occulta le complessità, e insufficienze e contraddizioni: semplicemente, è uno che nella battaglia ha scelto di essere protagonista da dentro.

Perché Cassese è certo un kantiano, ma sarebbe riduttivo infeltrirlo un illuminista: non la fede nella ragione, ma l'orma di Mounier e Maritain, piuttosto, e il valore elementare e supremo della persona. E della persona, anche tutta la fragilità: senza lasciarsi mai deviare dall'eccezione, abbagliare dall'orrore, e indagando saldo invece sull'ordinarietà della vita, la complicità tacita e quasi inconsapevole, quell'abitudine quello sbiadirsi, quell'attenuazione dei sensi dell'uomo azzerato a ingranaggio - accanto e più degli Himmler, i Groning che ad Auschwitz hanno lavorato come anonimi contabili, così, come a uno sportello della posta: queste guerre in cui ''uno pulisce, uno cucina, l'altro uccide''. Ed è in questa sensibilità questa cura, questo grandangolo sul singolo che Cassese si differenzia dai tanti giuristi con l'elmetto: per ''il rispetto che è comunque tenuto anche all'uomo malvagio'', per tornare ancora a Kant, quel non illudersi mai personalmente immune dall'abisso - se ''i macellai di questo secolo sono tra noi, e del tutto simili a noi'', insegnava Hannah Arendt. Qualcuno all'Aja titola le sue memorie La caccia, come se l'icona della giustizia fosse non più la bilancia, ma il fucile - come se risolto un Milosevic, risolti i Balcani: Cassese è l'esatto contrario, non un crociato, piuttosto un calviniano Palomar dei diritti umani - ''un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la salvezza: ma non è ancora arrivato''. Uno pronto a scandagliare anche se stesso, a chiamare con il loro nome il genocidio in Ruanda come la tortura di Bolzaneto: perché se vogliamo agire efficaci per i diritti umani, abbiamo prima cercato di evitare ''il moralismo ipocrita, visto che la nostra condotta non è priva di macchie?'', si assicurava Cyrus Vance nei suoi consigli a Kennedy. Naturalmente, non è solo questione di Freud e introspezione: ''mi auguro che i miei colleghi comincino a studiare la storia, le religioni e la società islamica: è pericoloso, se gli psicoanalisti diventano orientalisti'', denuncia uno psichiatra palestinese a proposito del terrorismo suicida, e delle analisi che trincerano l'occupazione israeliana dietro il corano.

Ma se è certo una rivoluzione della libertà - che si svincola dai confini nazionali, e si fa ora libertà nello stato ma anche dallo stato, se necessario - quella dei diritti umani è per Cassese anche e soprattutto una rivoluzione della responsabilità. Una rivoluzione ''degli uomini che non si voltano'', per riprendere Eugenio Montale. Ma non solo gli eroi: perché ''per tutelare i diritti umani non servono solo le Nazioni Unite, ma prima ancora gli uomini uniti'' - e niente riassume meglio Cassese, in fondo, della fotografia che apre il suo sito: nessuna toga di giudice, nessun podio di oratore, solo un sorriso largo in bicicletta da una strada dell'Aja. Perché il male moderno è la pennellata icastica con cui Mangakis, negli anni della dittatura greca, descrive il suo carceriere, che intravede dallo spioncino della cella: ''un occhio solo, senza volto'': un male caratterizzato dall'organizzazione e divisione del lavoro, e dal progressivo diluirsi allora, dal dissolversi della responsabilità, in una atomizzazione dell'atto umano in cui il singolo non percepisce più le conseguenze complessive dell'azione a cui contribuisce. Bellissime le pagine su un esperimento statunitense sull'autorità, con i partecipanti che accettano di infliggere scosse elettriche a un uomo non perché abbiano qualcosa contro la vittima, ma semplicemente per senso, riflesso di obbedienza: ed è il momento allora di opporsi a questa moralità perversa che riempie e fuorvia le parole lealtà, dovere disciplina, a qualsiasi livello - siamo tutti sovrani, richiamava Lorenzo Milani: ''l'obbedienza non è una virtù, ma la più subdola delle tentazioni''.
Quello che accade, osservava Gramsci, non accade solo perché alcuni vogliono che accada, ma soprattutto perché altri, la maggioranza, lasciano che accada: ''nel posto da cui arrivo la società era formata da tre semplici categorie'', sintetizza con gelida lucidità Elie Wiesel, ''gli assassini, le vittime, e quelli che stavano a guardare''.

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