Continuiamo il percorso letterario alla 'scoperta di Santa Chiara d'Assisi' pubblicando un articolo scritto da Padre Piotr Anzulewicz, OFMCov, professore straordinario, redattore del «Doctor Seraphicus» del Centro Studi Bonaventuriani e docente della Pontificia Facoltà Teologica di S. Bonaventura di Roma. Questo articolo è stato utilizzato da Padre Piotr come traccia per l'omelia nella messa solenne dell'11 agosto, giorno in cui viene ricordata la Santa di Assisi.
«Dimorate in me e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. Io sono la vite, voi siete i tralci» (Gv 15,4-5).
Se ci guardiamo intorno, possiamo vedere persone che hanno un volto che sembra riflettere il sole del cuore. Quanto amore alberga in questi cuori! Un amore che è la sola ricchezza dell'uomo e che ha le sue radici nella “vite”, di cui parla il Vangelo, e di cui noi dovremmo essere i tralci, cioè i destinatari di quella «vite che produce molto frutto, se rimaniamo uniti a Lui fortemente», come seppero e sanno fare i testimoni sconosciuti e anonimi delle nostre comunità – famiglie e parrocchie – e in modo splendido la grande schiera dei santi che hanno attraversato i secoli e le nazioni del nostro continente. Basta ricordarne i nomi per intuirne la “ricaduta” sociale e “umanitaria”: Benedetto da Norcia († 547), Francesco († 1226) e Chiara d'Assisi († 11 agosto 1253), Giovanni Bosco († 1888) e Giovanni Maria Vianney († 1895), Massimiliano Kolbe († 1941) e Teresa Benedetta della Croce († 1942)... Di loro si può certamente dire che sono stati – e restano – tralci uniti alla «vite» e che, proprio per questo, hanno portato molto frutto. E noi?Siamo già discepoli e nello stesso tempo lo dobbiamo diventare, in un processo infinito, perché non siamo discepoli di una dottrina, ma di Gesù Cristo, colui che è la Vite, Amore umanato. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: quando l'amore, quello vero, ha le sue radici in Dio e si alimenta a quella vite continuamente, vivere è bello, tanto bello, per noi e per chi ci è vicino, perché il vero amore è come il sorriso e la gioia, si comunica a chi è accanto. Così come quando non si conosce l'amore, il cuore soffre di quel vuoto e la vita sembra una condanna...come la pianta del fiore le cui radici, non trovando terra e acqua da cui attingere vita, presto seccano.
La Parola di Dio incarnata, la Vite, il Cristo, indica all’uomo la strada per raggiungere la pienezza di rapporto con se stesso e con gli altri, mostra la giusta misura di ogni cosa, suggerisce diritti e doveri e il livello di responsabilità che ogni persona – per essere degna di questo nome – deve imparare nel corso della sua vita, immergendosi nel silenzio, nella sobrietà, nell’ascolto della Parola che torna ad essere davvero la Parola. Affidarsi a questa Parola, in questa notte priva di stelle, significa risanare il nostro tempo, come a suo tempo fece luminosamente s. Chiara, «pianticella» di s. Francesco.
In tempi come il nostro di scarse certezze e di non brillanti esempi, una figura come Chiara, letta nella sua essenzialità, può essere benissimo un modello cui guardare, un faro che illumina i sentieri dell’impegno cristiano. Scrisse di lei il primo biografo Tommaso da Celano:
«Nobile di nascita, ma più nobile di spirito; vergine nel corpo, castissima nella mente; giovane di età, provetta nel giudizio; costante nel bene, sposata per sempre all’amore divino; sapiente e nello stesso tempo umile; Chiara di nome, più chiara per la vita, chiarissima per i costumi».
Il suo era un cuore che non conosceva confini, anche se rinchiuso nelle mura del convento di San Damiano. Era come ‘una vite’, a sua volta frutto della ‘sola vite-Cristo’, che sembrava coprire tutta la terra. Il suo cuore ha cessato di battere a 59 anni, quando, come Gesù sulla croce, aveva dato proprio tutto.
La sua singolarità, come quella di Francesco, va però cercata nella sua esperienza di Dio, solidamente ancorata alla Parola pregata nella liturgia della Chiesa e alimentata da lunghe ore di dialogo silenzioso con il 'Tu'. Ha all’origine lo stupore di fronte alla grandezza di Dio che, per amore di ogni sua creatura, si fa piccolezza, debolezza, povertà in Gesù, fino
«alla nudità della croce: il Signore Gesù Cristo, il cui potere erano e sono il cielo e la terra, il quale disse e tutto fu creato, si degno più di ogni altro abbracciare (la povertà)! Disse egli infatti: Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, mentre il Figlio dell’uomo, cioè Cristo, non ha dove posare il capo, ma chinato il capo rese lo spirito» (1LAg 17-18).
L’apporto di Chiara al mondo della preghiera è del tutto peculiare. Non lo si può intendere come i grandi apporti della tradizione carmelitana e dell’antico eremitismo, che hanno insegnato a pregare con la Bibbia nella dinamica lectio-meditatio-oratio-contemlatio. Il suo contributo in fatto di preghiera è più globale, più compenetrante, più penetrato nei pori stessi della vita, più nelle profondità dei movimenti del proprio spirito. La sua dinamica orante è peculiare, perché è qualche cosa di globale, benché non diffuso, perché fa del «guardare a Cristo» il centro della sua contemplazione, alludendo agli atteggiamenti di fede, alle aspirazioni e alle certezze intorno alla persona di Gesù. Perciò la sua contemplazione è ammirativa, perché Chiara impara e vive la fede in modi manifestativi che si vedono implicati nel vertiginoso turbine dell’amore attraente ed assorbente. Si lascia avvolgere e compenetrare da Colui che la salva. Questo provoca il fatto che vengano ordinate a questo fine basilare cose molto concrete della vita quotidiana: il silenzio, il tempo, l’austerità, la clausura. Il tutto orientato verso questa possibilità arricchente della fede che è entrare nel suo segreto attraverso i canali concreti della preghiera, intorno alla realtà salvifica di Gesù: la liturgia secondo il sentire della Chiesa per la costruzione della fede comune, insieme con la Parola donata alla Chiesa come alimento di vita e di fede.
Il nucleo centrale del modo di pregare di Chiara lo potremmo formulare così: Guardare a Cristo. Nelle 4LAg 9-17 si parla di questo guardare a Cristo come di un “intuire” espressamente e con passione Colui che può motivare la sequela. Così dev’essere il guardare a Cristo povero e crocifisso secondo Chiara: quotidiano, perpetuo, trasformante, anelando a identificarsi con Lui.
Questo è il campo dell’esperienza sponsale, un ambito intimo e sensibile, nel quale Chiara si alza in volo, come tutti coloro che vivono l’ideale cristiano con intensità. Per il suo essere donna, considera Cristo come colui che suscita la vibrazione più amorosa del suo essere. Questo amore di donna credente in Gesù, questa sintonia ultima nel luogo che uno ha come maggiormente suo, questo essere totalmente immedesimati poiché si è tutti in lui, Chiara lo trova nell’amore vivo e avvolgente per Cristo crocifisso. Amore di donna, amore di credente. Questo è il desiderio forte che sente Chiara e che la 4LAg 28-34 esprime con parole prese in prestito dal Cantico dei Cantici: Attirami! Che il tenero abbraccio e il bacio intenso dicano ciò che le parole riescono solo a insinuare, che l’amore per Gesù non sia fatto solo di idee, ma sia un amore vertiginoso e travolgente; che la consolazione della fede non sia fatta solo di promesse religiose, ma sia una risposta di amore. Attirami!, questo è l’anelito di Chiara, quello per il quale ha impegnato la totalità della sua vita, la ragione viva per la quale il lungo e duro cammino della sua esistenza non solo non ha deteriorato la sua integrità personale, ma l’ha portata alla sua pienezza totale.
Chiara, creatura davvero evangelica, è donna orante. La sua vita, sotto la guida di Francesco, non fu una vita eremitica, anche se contemplativa e claustrale. Intorno a lei, che voleva vivere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo, si radunò il primo nucleo di sorelle, contente di Dio solo. «La sua via – scrisse Giovanni Paolo II il 19 agosto 1993 alle clarisse claustrali nell’ottavo centenario della nascita della Fondatrice - era una eucaristia, perché, al pari di Francesco, ella elevava dalla sua clausura un continuo “ringraziamento” a Dio con la preghiera, la lode, la supplica, l’intercessione, il pianto e il sacrificio. Tutto era da lei accolto ed offerto al Padre».
E tutto ciò può nascere e svilupparsi in un’esistenza nutrita e illuminata dall’Eucaristia, il cui cuore è lavare i piedi, servire, dare totalmente se stessi come atto supremo di amore. Ricevere il «corpo offerto per noi» significa accettare di offrire se stessi ogni giorno secondo la logica dell’amore/dono, perché tutto è dono di Dio, ringraziamento e riconoscenza.
Non resta ora che chiederci tutti se siamo entrati in questa visione della vita con Dio, se davvero siamo «tralci fortemente avvinti alla vite», se davvero «abitiamo nel Signore», ossia se viviamo quell'amore donato che fa vivere e si dona.
Ci definiamo tutti amici: in apparenza ne abbiamo tanti, forse troppi, ma quando ci guardiamo dentro o cerchiamo la loro mano o vorremmo posare il nostro capo sul loro petto, come fece l'apostolo Giovanni con Gesù nell'Ultima Cena, facilmente incontriamo un vuoto spaventoso, che rivela la misura dei nostri rapporti: un ‘girare a vuoto’ attorno alla grande e necessaria realtà dell'amore. Qui e proprio qui è uno dei profondi dolori che vivono in tanti: quello di sentirsi soli, non abbastanza amati o amati senza la necessaria profondità. Così ci ammonisce l'apostolo Giovanni:
«Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità, e davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa egli ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera di nulla, abbiamo fiducia in Dio; e qualunque cosa chiederemo la riceveremo da Lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che è gradito a Dio» (1 Gv 3, 18-24).
« Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Questa è la sorpresa di Dio. Lui in persona è Vite stessa e Vita, fonte di energia e linfa vitale, perché anche noi possiamo diventare come s. Francesco e s. Chiara, nonostante la nostra indegnità, godere pienamente i frutti della vite e del lavoro, connettendosi a Lui, Parola di Dio e Pane di vita.
Con fede poniamoci davanti al Signore, al Signore-Eucaristia, e diciamo con s. Chiara:
«Eccomi, Signore, ci sono, voglio esserci, accoglimi come sono e fa che anch’io mi accolga come sono, perché stando con te, accogliendo te, possa pian piano divenire come tu mi vuoi e fare ciò che tu vuoi. Donaci la tua linfa vitale, / fa che, come tralci vivi, ce ne lasciamo irrorare, / così da produrre frutti dolci e maturi / alimento per i nostri fratelli. / Amen».
«Dimorate in me e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. Io sono la vite, voi siete i tralci» (Gv 15,4-5).
Se ci guardiamo intorno, possiamo vedere persone che hanno un volto che sembra riflettere il sole del cuore. Quanto amore alberga in questi cuori! Un amore che è la sola ricchezza dell'uomo e che ha le sue radici nella “vite”, di cui parla il Vangelo, e di cui noi dovremmo essere i tralci, cioè i destinatari di quella «vite che produce molto frutto, se rimaniamo uniti a Lui fortemente», come seppero e sanno fare i testimoni sconosciuti e anonimi delle nostre comunità – famiglie e parrocchie – e in modo splendido la grande schiera dei santi che hanno attraversato i secoli e le nazioni del nostro continente. Basta ricordarne i nomi per intuirne la “ricaduta” sociale e “umanitaria”: Benedetto da Norcia († 547), Francesco († 1226) e Chiara d'Assisi († 11 agosto 1253), Giovanni Bosco († 1888) e Giovanni Maria Vianney († 1895), Massimiliano Kolbe († 1941) e Teresa Benedetta della Croce († 1942)... Di loro si può certamente dire che sono stati – e restano – tralci uniti alla «vite» e che, proprio per questo, hanno portato molto frutto. E noi?Siamo già discepoli e nello stesso tempo lo dobbiamo diventare, in un processo infinito, perché non siamo discepoli di una dottrina, ma di Gesù Cristo, colui che è la Vite, Amore umanato. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: quando l'amore, quello vero, ha le sue radici in Dio e si alimenta a quella vite continuamente, vivere è bello, tanto bello, per noi e per chi ci è vicino, perché il vero amore è come il sorriso e la gioia, si comunica a chi è accanto. Così come quando non si conosce l'amore, il cuore soffre di quel vuoto e la vita sembra una condanna...come la pianta del fiore le cui radici, non trovando terra e acqua da cui attingere vita, presto seccano.
La Parola di Dio incarnata, la Vite, il Cristo, indica all’uomo la strada per raggiungere la pienezza di rapporto con se stesso e con gli altri, mostra la giusta misura di ogni cosa, suggerisce diritti e doveri e il livello di responsabilità che ogni persona – per essere degna di questo nome – deve imparare nel corso della sua vita, immergendosi nel silenzio, nella sobrietà, nell’ascolto della Parola che torna ad essere davvero la Parola. Affidarsi a questa Parola, in questa notte priva di stelle, significa risanare il nostro tempo, come a suo tempo fece luminosamente s. Chiara, «pianticella» di s. Francesco.
In tempi come il nostro di scarse certezze e di non brillanti esempi, una figura come Chiara, letta nella sua essenzialità, può essere benissimo un modello cui guardare, un faro che illumina i sentieri dell’impegno cristiano. Scrisse di lei il primo biografo Tommaso da Celano:
«Nobile di nascita, ma più nobile di spirito; vergine nel corpo, castissima nella mente; giovane di età, provetta nel giudizio; costante nel bene, sposata per sempre all’amore divino; sapiente e nello stesso tempo umile; Chiara di nome, più chiara per la vita, chiarissima per i costumi».
Il suo era un cuore che non conosceva confini, anche se rinchiuso nelle mura del convento di San Damiano. Era come ‘una vite’, a sua volta frutto della ‘sola vite-Cristo’, che sembrava coprire tutta la terra. Il suo cuore ha cessato di battere a 59 anni, quando, come Gesù sulla croce, aveva dato proprio tutto.
La sua singolarità, come quella di Francesco, va però cercata nella sua esperienza di Dio, solidamente ancorata alla Parola pregata nella liturgia della Chiesa e alimentata da lunghe ore di dialogo silenzioso con il 'Tu'. Ha all’origine lo stupore di fronte alla grandezza di Dio che, per amore di ogni sua creatura, si fa piccolezza, debolezza, povertà in Gesù, fino
«alla nudità della croce: il Signore Gesù Cristo, il cui potere erano e sono il cielo e la terra, il quale disse e tutto fu creato, si degno più di ogni altro abbracciare (la povertà)! Disse egli infatti: Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, mentre il Figlio dell’uomo, cioè Cristo, non ha dove posare il capo, ma chinato il capo rese lo spirito» (1LAg 17-18).
L’apporto di Chiara al mondo della preghiera è del tutto peculiare. Non lo si può intendere come i grandi apporti della tradizione carmelitana e dell’antico eremitismo, che hanno insegnato a pregare con la Bibbia nella dinamica lectio-meditatio-oratio-contemlatio. Il suo contributo in fatto di preghiera è più globale, più compenetrante, più penetrato nei pori stessi della vita, più nelle profondità dei movimenti del proprio spirito. La sua dinamica orante è peculiare, perché è qualche cosa di globale, benché non diffuso, perché fa del «guardare a Cristo» il centro della sua contemplazione, alludendo agli atteggiamenti di fede, alle aspirazioni e alle certezze intorno alla persona di Gesù. Perciò la sua contemplazione è ammirativa, perché Chiara impara e vive la fede in modi manifestativi che si vedono implicati nel vertiginoso turbine dell’amore attraente ed assorbente. Si lascia avvolgere e compenetrare da Colui che la salva. Questo provoca il fatto che vengano ordinate a questo fine basilare cose molto concrete della vita quotidiana: il silenzio, il tempo, l’austerità, la clausura. Il tutto orientato verso questa possibilità arricchente della fede che è entrare nel suo segreto attraverso i canali concreti della preghiera, intorno alla realtà salvifica di Gesù: la liturgia secondo il sentire della Chiesa per la costruzione della fede comune, insieme con la Parola donata alla Chiesa come alimento di vita e di fede.
Il nucleo centrale del modo di pregare di Chiara lo potremmo formulare così: Guardare a Cristo. Nelle 4LAg 9-17 si parla di questo guardare a Cristo come di un “intuire” espressamente e con passione Colui che può motivare la sequela. Così dev’essere il guardare a Cristo povero e crocifisso secondo Chiara: quotidiano, perpetuo, trasformante, anelando a identificarsi con Lui.
Questo è il campo dell’esperienza sponsale, un ambito intimo e sensibile, nel quale Chiara si alza in volo, come tutti coloro che vivono l’ideale cristiano con intensità. Per il suo essere donna, considera Cristo come colui che suscita la vibrazione più amorosa del suo essere. Questo amore di donna credente in Gesù, questa sintonia ultima nel luogo che uno ha come maggiormente suo, questo essere totalmente immedesimati poiché si è tutti in lui, Chiara lo trova nell’amore vivo e avvolgente per Cristo crocifisso. Amore di donna, amore di credente. Questo è il desiderio forte che sente Chiara e che la 4LAg 28-34 esprime con parole prese in prestito dal Cantico dei Cantici: Attirami! Che il tenero abbraccio e il bacio intenso dicano ciò che le parole riescono solo a insinuare, che l’amore per Gesù non sia fatto solo di idee, ma sia un amore vertiginoso e travolgente; che la consolazione della fede non sia fatta solo di promesse religiose, ma sia una risposta di amore. Attirami!, questo è l’anelito di Chiara, quello per il quale ha impegnato la totalità della sua vita, la ragione viva per la quale il lungo e duro cammino della sua esistenza non solo non ha deteriorato la sua integrità personale, ma l’ha portata alla sua pienezza totale.
Chiara, creatura davvero evangelica, è donna orante. La sua vita, sotto la guida di Francesco, non fu una vita eremitica, anche se contemplativa e claustrale. Intorno a lei, che voleva vivere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo, si radunò il primo nucleo di sorelle, contente di Dio solo. «La sua via – scrisse Giovanni Paolo II il 19 agosto 1993 alle clarisse claustrali nell’ottavo centenario della nascita della Fondatrice - era una eucaristia, perché, al pari di Francesco, ella elevava dalla sua clausura un continuo “ringraziamento” a Dio con la preghiera, la lode, la supplica, l’intercessione, il pianto e il sacrificio. Tutto era da lei accolto ed offerto al Padre».
E tutto ciò può nascere e svilupparsi in un’esistenza nutrita e illuminata dall’Eucaristia, il cui cuore è lavare i piedi, servire, dare totalmente se stessi come atto supremo di amore. Ricevere il «corpo offerto per noi» significa accettare di offrire se stessi ogni giorno secondo la logica dell’amore/dono, perché tutto è dono di Dio, ringraziamento e riconoscenza.
Non resta ora che chiederci tutti se siamo entrati in questa visione della vita con Dio, se davvero siamo «tralci fortemente avvinti alla vite», se davvero «abitiamo nel Signore», ossia se viviamo quell'amore donato che fa vivere e si dona.
Ci definiamo tutti amici: in apparenza ne abbiamo tanti, forse troppi, ma quando ci guardiamo dentro o cerchiamo la loro mano o vorremmo posare il nostro capo sul loro petto, come fece l'apostolo Giovanni con Gesù nell'Ultima Cena, facilmente incontriamo un vuoto spaventoso, che rivela la misura dei nostri rapporti: un ‘girare a vuoto’ attorno alla grande e necessaria realtà dell'amore. Qui e proprio qui è uno dei profondi dolori che vivono in tanti: quello di sentirsi soli, non abbastanza amati o amati senza la necessaria profondità. Così ci ammonisce l'apostolo Giovanni:
«Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità, e davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa egli ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera di nulla, abbiamo fiducia in Dio; e qualunque cosa chiederemo la riceveremo da Lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che è gradito a Dio» (1 Gv 3, 18-24).
« Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Questa è la sorpresa di Dio. Lui in persona è Vite stessa e Vita, fonte di energia e linfa vitale, perché anche noi possiamo diventare come s. Francesco e s. Chiara, nonostante la nostra indegnità, godere pienamente i frutti della vite e del lavoro, connettendosi a Lui, Parola di Dio e Pane di vita.
Con fede poniamoci davanti al Signore, al Signore-Eucaristia, e diciamo con s. Chiara:
«Eccomi, Signore, ci sono, voglio esserci, accoglimi come sono e fa che anch’io mi accolga come sono, perché stando con te, accogliendo te, possa pian piano divenire come tu mi vuoi e fare ciò che tu vuoi. Donaci la tua linfa vitale, / fa che, come tralci vivi, ce ne lasciamo irrorare, / così da produrre frutti dolci e maturi / alimento per i nostri fratelli. / Amen».
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