Ventuno anni dopo continuiamo a parlare di beni confiscati e di come migliorare l’azione dello Stato perché questa sia una sfida da vincere.
Liberainformazione - Ventuno anni dopo è l’emergenza è sempre tale. L’azione dello Stato che a fatica riesce a completarsi, per spossessare i mafiosi dei loro beni, soldi, imprese, terreni e immobili, con i quali continuano a esercitare il loro potere, “senza sparare un colpo” come spesso si sente dire quando si parla della “mafia sommersa”, con i boss che cercano in tutti i modi di rallentare, e ostacolare, quando non possono fare altro che subire lo “sfratto”, la rassegnazione dei beni loro tolti, per l’uso sociale come prevede quella legge che porta i nomi di un ex ministro dell’Interno, Virginio Rognoni e dell’ex deputato del Pci Pio La Torre contro il quale i mafiosi scatenarono la loro vendetta di morte. La stessa esecuzione decisa il 14 settembre del 1988, 21 anni addietro, contro il giudice oramai in pensione Alberto Giacomelli. I pentiti hanno raccontato che in quei giorni Totò Riina cercava a Trapani un giudice da uccidere, “uno qualsiasi”, e chi poteva essere meglio di Giacomelli con il quale Riina un contro in sospeso spiegò ai suoi complici di averlo. Era quello che aveva confiscato i beni a suo fratello, Gaetano. Presiedeva il collegio del Tribunale delle Misure di prevenzione che molto tempo prima di quel 14 settembre 1988 aveva confiscato le proprietà ad un Riina.
Ventuno anni dopo continuiamo a parlare di beni confiscati e di come migliorare l’azione dello Stato perché questa sia una sfida da vincere. In questi giorni il Viminale col ministro Maroni ha sciorinato i numeri delle confische, ma come ha più volte riconosciuto il commissario dei beni confiscati, prefetto Antonio Maruccia, il nodo da sciogliere è nel far si che velocemente i beni confiscati vengano riutilizzati, producendo reddito e garantendo occupazione. E’ tutta trapanese la storia mai fuori posto da ricordare della Calcestruzzi Ericina Libera. Confiscata i mafiosi la rivolevano, usarono un imprenditore, Vincenzo Mannina, per riacquistarla, non ci riuscirono perché un prefetto, Fulvio Sodano, si oppose capendo chi muoveva le fila, oggi l’azienda è rinata e vive grazie a quei lavoratori che i mafiosi volevano disoccupati. Sodano per tanti ma non per tutti purtroppo è un simbolo di quella battaglia, dimenticato, come per anni è stato per il giudice Alberto Giacomelli. Come per altre vittime della violenza mafiosa sono occorsi 21 anni per vedere finalmente una piazza della città a lui dedicata. A questo sarebbe utile accompagnare il ricordo della sua azione “punita” con la morte per volontà di Cosa Nostra.
Per farlo bisogna sfogliare le pagine di quelle sentenze che hanno condannato all’ergastolo Totò Riina e assolto per la insufficienza di prove il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, che però qualcosa su quel delitto doveva sapere, a sentire i collaboratori di giustizia.
Era il 14 settembre 1988, ore 8,35, via Falconara di Locogrande, quando fu rinvenuto il cadavere di Alberto Giacomelli, il cadavere, resta scritto nel verbale dei carabinieri, era supino sul margine destro della strada, dietro l’autovettura Panda Fiat di proprietà dell’ex giudice, presentava un colpo di arma da fuoco alla regione temporale destra ed un altro sul lato destro dell’addome. A circa duecento metri, accanto ad un cassonetto per i rifiuti, si rinveniva una vespa 200 di colore celeste mentre, all’interno del medesimo contenitore, un casco di colore rosso. Una rivoltella cal.38 risultava abbandonata a circa cinque metri dal contenitore da ultimo menzionato. Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala, arrivò sul posto, il sospetto che quella era opera della mafia che da lì a qualche giorno avrebbe continuato la mattanza, un altro giudice, Antonino Saetta a Caltanissetta, Mauro Rostagno, il 26 settembre, prima di loro era toccato tra gli altri all’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, a Natale Mondo, poliziotto, dopo Rostagno a Paceco verrà ammazzato il patriarca della mafia Girolamo Marino, “Mommo u nanu”. Era la mafia che cambiava pelle e decideva nuove strategie. Eppure per anni il delitto Giacomelli fu considerato opera di balordi.
Lo scenario mafioso emerse con le dichiarazioni di Vincenzo Sinacori, Leonardo Canino, Ciccio Milazzo, Giovanni Brusca. La “fonte” del racconto di Sinacori fu l’ex “tesoriere” della cosca di Mazara, Ciccio Messina detto “u muraturi”: Giacomelli ammazzato “perché aveva fatto il sequestro dei beni al fratello du zu Totò (Riina)”. Una sentenza firmata da Giacomelli il 28 gennaio 1985, i carabinieri che hanno condotto questa parte di indagini sono andati presso la cancelleria del Tribunale a riesumare il documento: sorveglianza speciale per la durata di anni tre per Gaetano Riina, confisca dei beni immobili appartenenti al suddetto ed alla di lui moglie Vita Cardinetto, siti a Mazara del Vallo. Gaetano Riina tentò nel 1987 di mantenere il possesso dei beni, anche come locatario, ma il 9 settembre 1987, arrivò la risposta negativa dei giudici quando oramai Giacomelli non era più servizio. Totò Riina però non considerò chiusa la partita, e profittando della mattanza organizzata per la sua scalata al potere di Cosa Nostra, decise che andava tolto di mezzo quel giudice che aveva cagionato danno alla “famiglia”.
Per tante ragioni lo scenario del delitto resta attuale. I beni confiscati ma non solo. Un omicidio che maturò a Mazara che allora come oggi “è una delle capitali” della mafia e dove tanti sono gli intrecci. Non fosse altro perché a comandare resta don Mariano Agate, anche se in carcere. Recenti indagini hanno tentato di spossessarlo dell’azienda di “famiglia” la Calcestruzzi Mazara, ma una decisione del Tribunale del Riesame ha mandato al’aria il lavoro della Procura Antimafia di Palermo, restituendo ad Agate l’impresa che è stata base per delitti di mafia e sede di summit di Cosa Nostra. La mafia quella di Mazara è quella che ha saputo essere sanguinaria ma anche imprenditoriale, capace di entrare nei salotti della politica e della massoneria, arrivare fino a pilotare processi in Cassazione come ha svelato l’indagine “Hiram” dei carabinieri. Che ha sparato quando non ne ha potuto fare a meno o per strategia, come fu per il giudice Giacomelli. E’ uno scenario che dovrebbe suscitare indignazione e reazione, ma al solito di tutto questo c’è stato poco in questi 21 anni. Il rischio dell’oblio è stato più concreto. Ed oggi non basta intitolare una piazza per parlare di reazione e rivolta antimafia.
di Rino Giacalone
Liberainformazione - Ventuno anni dopo è l’emergenza è sempre tale. L’azione dello Stato che a fatica riesce a completarsi, per spossessare i mafiosi dei loro beni, soldi, imprese, terreni e immobili, con i quali continuano a esercitare il loro potere, “senza sparare un colpo” come spesso si sente dire quando si parla della “mafia sommersa”, con i boss che cercano in tutti i modi di rallentare, e ostacolare, quando non possono fare altro che subire lo “sfratto”, la rassegnazione dei beni loro tolti, per l’uso sociale come prevede quella legge che porta i nomi di un ex ministro dell’Interno, Virginio Rognoni e dell’ex deputato del Pci Pio La Torre contro il quale i mafiosi scatenarono la loro vendetta di morte. La stessa esecuzione decisa il 14 settembre del 1988, 21 anni addietro, contro il giudice oramai in pensione Alberto Giacomelli. I pentiti hanno raccontato che in quei giorni Totò Riina cercava a Trapani un giudice da uccidere, “uno qualsiasi”, e chi poteva essere meglio di Giacomelli con il quale Riina un contro in sospeso spiegò ai suoi complici di averlo. Era quello che aveva confiscato i beni a suo fratello, Gaetano. Presiedeva il collegio del Tribunale delle Misure di prevenzione che molto tempo prima di quel 14 settembre 1988 aveva confiscato le proprietà ad un Riina.
Ventuno anni dopo continuiamo a parlare di beni confiscati e di come migliorare l’azione dello Stato perché questa sia una sfida da vincere. In questi giorni il Viminale col ministro Maroni ha sciorinato i numeri delle confische, ma come ha più volte riconosciuto il commissario dei beni confiscati, prefetto Antonio Maruccia, il nodo da sciogliere è nel far si che velocemente i beni confiscati vengano riutilizzati, producendo reddito e garantendo occupazione. E’ tutta trapanese la storia mai fuori posto da ricordare della Calcestruzzi Ericina Libera. Confiscata i mafiosi la rivolevano, usarono un imprenditore, Vincenzo Mannina, per riacquistarla, non ci riuscirono perché un prefetto, Fulvio Sodano, si oppose capendo chi muoveva le fila, oggi l’azienda è rinata e vive grazie a quei lavoratori che i mafiosi volevano disoccupati. Sodano per tanti ma non per tutti purtroppo è un simbolo di quella battaglia, dimenticato, come per anni è stato per il giudice Alberto Giacomelli. Come per altre vittime della violenza mafiosa sono occorsi 21 anni per vedere finalmente una piazza della città a lui dedicata. A questo sarebbe utile accompagnare il ricordo della sua azione “punita” con la morte per volontà di Cosa Nostra.
Per farlo bisogna sfogliare le pagine di quelle sentenze che hanno condannato all’ergastolo Totò Riina e assolto per la insufficienza di prove il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, che però qualcosa su quel delitto doveva sapere, a sentire i collaboratori di giustizia.
Era il 14 settembre 1988, ore 8,35, via Falconara di Locogrande, quando fu rinvenuto il cadavere di Alberto Giacomelli, il cadavere, resta scritto nel verbale dei carabinieri, era supino sul margine destro della strada, dietro l’autovettura Panda Fiat di proprietà dell’ex giudice, presentava un colpo di arma da fuoco alla regione temporale destra ed un altro sul lato destro dell’addome. A circa duecento metri, accanto ad un cassonetto per i rifiuti, si rinveniva una vespa 200 di colore celeste mentre, all’interno del medesimo contenitore, un casco di colore rosso. Una rivoltella cal.38 risultava abbandonata a circa cinque metri dal contenitore da ultimo menzionato. Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala, arrivò sul posto, il sospetto che quella era opera della mafia che da lì a qualche giorno avrebbe continuato la mattanza, un altro giudice, Antonino Saetta a Caltanissetta, Mauro Rostagno, il 26 settembre, prima di loro era toccato tra gli altri all’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, a Natale Mondo, poliziotto, dopo Rostagno a Paceco verrà ammazzato il patriarca della mafia Girolamo Marino, “Mommo u nanu”. Era la mafia che cambiava pelle e decideva nuove strategie. Eppure per anni il delitto Giacomelli fu considerato opera di balordi.
Lo scenario mafioso emerse con le dichiarazioni di Vincenzo Sinacori, Leonardo Canino, Ciccio Milazzo, Giovanni Brusca. La “fonte” del racconto di Sinacori fu l’ex “tesoriere” della cosca di Mazara, Ciccio Messina detto “u muraturi”: Giacomelli ammazzato “perché aveva fatto il sequestro dei beni al fratello du zu Totò (Riina)”. Una sentenza firmata da Giacomelli il 28 gennaio 1985, i carabinieri che hanno condotto questa parte di indagini sono andati presso la cancelleria del Tribunale a riesumare il documento: sorveglianza speciale per la durata di anni tre per Gaetano Riina, confisca dei beni immobili appartenenti al suddetto ed alla di lui moglie Vita Cardinetto, siti a Mazara del Vallo. Gaetano Riina tentò nel 1987 di mantenere il possesso dei beni, anche come locatario, ma il 9 settembre 1987, arrivò la risposta negativa dei giudici quando oramai Giacomelli non era più servizio. Totò Riina però non considerò chiusa la partita, e profittando della mattanza organizzata per la sua scalata al potere di Cosa Nostra, decise che andava tolto di mezzo quel giudice che aveva cagionato danno alla “famiglia”.
Per tante ragioni lo scenario del delitto resta attuale. I beni confiscati ma non solo. Un omicidio che maturò a Mazara che allora come oggi “è una delle capitali” della mafia e dove tanti sono gli intrecci. Non fosse altro perché a comandare resta don Mariano Agate, anche se in carcere. Recenti indagini hanno tentato di spossessarlo dell’azienda di “famiglia” la Calcestruzzi Mazara, ma una decisione del Tribunale del Riesame ha mandato al’aria il lavoro della Procura Antimafia di Palermo, restituendo ad Agate l’impresa che è stata base per delitti di mafia e sede di summit di Cosa Nostra. La mafia quella di Mazara è quella che ha saputo essere sanguinaria ma anche imprenditoriale, capace di entrare nei salotti della politica e della massoneria, arrivare fino a pilotare processi in Cassazione come ha svelato l’indagine “Hiram” dei carabinieri. Che ha sparato quando non ne ha potuto fare a meno o per strategia, come fu per il giudice Giacomelli. E’ uno scenario che dovrebbe suscitare indignazione e reazione, ma al solito di tutto questo c’è stato poco in questi 21 anni. Il rischio dell’oblio è stato più concreto. Ed oggi non basta intitolare una piazza per parlare di reazione e rivolta antimafia.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.