lunedì, novembre 02, 2009

di Bartolo Salone

Da quando ero piccolo ho sempre atteso con impazienza il 2 novembre. Il giorno della commemorazione dei defunti è per me una grande gioia: è il giorno in cui sembra cadere quella cortina di ferro che la civiltà moderna ha eretto tra il mondo dei vivi e quello dei morti; è il giorno in cui andare al cimitero, da atto di pietà meramente individuale, diventa una vera e propria ricorrenza che coinvolge la collettività. Abituati come siamo a rappresentarci il cimitero come luogo lugubre, silenzioso, fatiscente, fomite di paure e di contorte immaginazioni, fa un certo effetto costatare come il medesimo, messi da parte pregiudizi e superstizioni (pure alimentati dalla letteratura e dalla cinematografia “horror”, spesso provenienti da Paesi in cui il processo di scristianizzazione è giunto a tal compimento che raffigurarsi in maniera così orripilante tutto ciò che attiene all’aldilà si presenta quasi come una necessità, un modo per mettere a tacere domande e timori a cui la cultura secolare è incapace di dare risposta), possa, almeno una volta l’anno, diventare luogo di incontro, di condivisione di ricordi al contempo belli e dolorosi e, da ultimo, occasione per fare memoria.
Fare memoria dei propri cari estinti, preservare il ricordo delle persone che hanno con noi condiviso un tratto di vita terrena e da cui noi stessi traiamo le nostre origini è un’esigenza condivisa dalle culture di tutti i tempi. Non c’è cultura al mondo, antica o moderna, che non avverta il bisogno non soltanto di commemorare, ma altresì di compiere gesti di pietà verso i propri morti. Col Cristianesimo, in più, le esigenze di pietà vengono epurate da ogni residuo magico-superstizioso, che troviamo nelle culture pre-cristiane e che continuano a esprimersi anche ai nostri giorni sotto forma di scongiuri, ritualità o semplici gesti apotropaici, diretti cioè ad allontanare la iella, il “maleficium”, che la sola percezione visiva di un cadavere o la evocazione di una disgrazia sovente provoca. Si comprende bene allora perché fino a qualche tempo fa il diritto canonico (e la legislazione civile) proibiva assolutamente la cremazione dei cadaveri, giudicando degna di un uomo, specie se cristiano, la sola inumazione o tumulazione del corpo, inteso quale tempio dello Spirito Santo destinato alla risurrezione finale. La cremazione, infatti, come pratica mortuaria, è legata ad una concezione feticistica del cadavere, visto come “oggetto” apportatore di influssi malefici, di cui è meglio disfarsi al più presto. Le stesse considerazioni igieniste addotte spesso a giustificazione di tale pratica nascondono in realtà una immotivata e irrazionale paura del cadavere in quanto tale, che non si spiega se non con il riemergere di ancestrali timori connessi ad una visione pagana della morte, concepita come la fine di tutto e non come l’inizio di una vita nuova, il passaggio “a miglior vita”, come amavano dire i nostri vecchi.
Timori analoghi, unitamente al proposito di colpire la religione cattolica incrinando la pietà popolare per i defunti, spinsero i rivoluzionari francesi prima e Napoleone poi a portare i cimiteri fuori dai centri abitati (prima a 200 metri e poi a 500 metri lontano dalle abitazioni urbane). Anche in questo caso vennero richiamate non meglio precisate ragioni igieniche a sostegno di siffatte misure, ma in realtà, come alcuni storici e antropologi hanno evidenziato, le motivazioni erano ben altre: una cultura come quella illuminista e borghese, tutta ripiegata nella dimensione terrena del vivere, non poteva tollerare la vista delle tombe, che, vuoi o non vuoi, richiamano i valori della trascendenza e dell’aldilà, ricordando agli uomini che l’esistenza terrena è solo una parentesi, un periodo di transizione verso il tutto o, al contrario, verso il nulla. Le tombe mettono a nudo l’incapacità delle ideologie razionaliste a rispondere alle domande sul destino ultimo dell’uomo (i c.d. “novissimi” della tradizione cattolica), domande che non possono invero trovare una risposta appagante al di fuori della prospettiva religiosa. Se lo schema non dà risposte, allora meglio negare le domande e allontanare dalla vista tutto ciò che possa suscitarle. Quindi, fuori i cimiteri dalle città!
Non solo, ma mentre venivano emanati regolamenti di polizia mortuaria inspiegabilmente sempre più severi e allontanati progressivamente i cimiteri dai centri urbani, ci si curava di sottrarli il più possibile alla vista attraverso l’elevazione di cinta murarie esageratamente alte (tali comunque da non lasciar intravvedere i loculi e le cappelle interne); talora, poi, le stesse mura cimiteriali venivano nascoste da robusti alberi sempre verdi, onde far scomparire il cimitero in mezzo alla vegetazione. Questa volta non potevano accamparsi giustificazioni pseudo-igieniche e allora si ricorse a motivazioni estetiche: i cimiteri vanno nascosti perché turbano l’estetica del territorio e la serenità d’animo di occasionali spettatori.
Razionalità o nevrosi? Al lettore la risposta.
Non desta meraviglia, dunque, il diffondersi, anche in Europa e da ultimo nel nostro Paese, di ricorrenze come Halloween, caratterizzate dal recupero di simbologie e di concezioni pagane. Il Jack-o’-lantern, la lanterna a forma di zucca contenente una candela accesa, altro non è che un amuleto avente il potere di scacciare gli spiriti dei morti vaganti sulla città dei vivi che minacciano vendetta. Poi si sono aggiunti i vampiri, le streghe e altri mostri. Non è mutato, però, il significato di fondo: la morte come esperienza del nulla da esorcizzare come meglio si può e i morti come esseri pericolosi che attentano al benessere dei vivi.
In questo contesto difficilmente trovano posto quei sentimenti di amore e di pietà verso i morti a cui il Cristianesimo ci aveva elevati. Anzi, il pensiero dell’aldilà, lungi dall’essere rassicurante, in questa prospettiva diventa fonte di nuove inquietudini e addirittura di nevrosi collettive. Quella paura della morte, che il Cristianesimo, con la sua fede nella vita eterna, ci aveva aiutato a vincere, riemerge in tutta la sua tragicità, trovando sfogo in espressioni, a dire il vero deviate, di necrofilia, di sadomasochismo e, nei casi più gravi, perfino di satanismo.
Ma, quel che è peggio, si corre oggi il rischio di dimenticare quel legame salutare esistente tra i vivi e i morti, che nella teologia cattolica prende il nome di “comunione dei santi”, ossia la serena consapevolezza che tutti, vivi e defunti, siamo membra vive di un solo Corpo, per cui, come i vivi possono pregare per i morti, perché giungano più velocemente alla beatitudine eterna, così le anime dei defunti, che già si trovano al cospetto di Dio, in Paradiso, possono intercedere per noi ancora pellegrini sulla terra. Il Cristianesimo ci ha insegnato a non aver paura dei nostri morti, a considerarli come presenze positive, non cattive ma al massimo bisognose delle nostre preghiere. Pregare per i morti, infatti, è una delle sette opere di misericordia spirituale così come seppellire i morti è opera di misericordia corporale. Ricordiamoci di questo almeno il giorno della commemorazione dei defunti, lasciando Halloween e tutto il resto a quanti si credono tanto razionali da respingere come infantile ogni forma di preghiera, ma che poi, di fronte al mistero della morte, non sanno far altro che affidarsi ai luoghi comuni e alla facile ironia, andando appresso a mode empie e blasfeme, che mortificano i più spontanei ed elementari sentimenti di pietà. Consideriamo altresì che, laddove manca la fede nella vita eterna, l’uomo ritorna ad essere preda di impulsi e di paure irrazionali che rendono la vita un’autentica tragedia. Senza la fede, accade inevitabilmente quel che descrive Pascal in uno dei suoi “Pensieri”: “Per quanto bella sia stata la commedia, l’ultimo atto è sempre tragico. Alla fine, con una vanga si getta della terra sulla testa. Ed ecco fatto, per sempre”.


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