giovedì, febbraio 04, 2010
Il mito del petroliere rischia di sfaldarsi con la lenta consapevolezza da parte del mercato che il giochino è stato bello finché è durato, ma che ormai non potrà durare così a lungo: i ricavi sono ormai ridotti al lumicino per le ex grandi sorelle occidentali, che si trovano costi sempre più alti per la raffinazione (di petrolio sempre più costoso da estrarre).

di Diego Barsotti

GreenReport
- Nonostante le disarmanti e grottesche affermazioni da parte del l'Unione petrolifera italiana, che nei giorni scorsi ha puntato il dito contro gli ambientalisti e contro l'efficienza energetica dei motori, che farà ridurre i consumi petroliferi mettendo a rischio 7500 posti di lavoro nella sola Italia, i numeri reali su cui riflettere dovrebbero essere altri, e soprattutto dovrebbero essere altre le soluzioni da adottare. In questi giorni per esempio sono stati stipulati contratti futures sul petrolio per 900 milioni di barili a fronte di una produzione reale di 85 milioni di barili. La situazione fisica offre uno scenario dove l'offerta è superiore di 1,5 milioni di barili al giorno rispetto alla domanda reale, che rimane stagnante. Mentre le scorte di greggio crescono e mentre le lavorazioni continuano a languire ai minimi degli ultimi 20 anni e cioè al 77% della capacità.

E' infatti ormai riconosciuto da tutti che i consumi di carburanti dell'area Ocse hanno raggiunto il loro picco nel 2007 e non raggiungeranno mai più quel livello. I posti di lavoro legati a un sistema economico ormai al tramonto, sono quindi inevitabilmente persi, e invece di assurde recriminazioni che vagheggiano un ritorno all'età della pietra (pardon, del petrolio), sarebbe opportuno riflettere su come governare quest'uscita dall'età della pietra-petrolio, come governare la trasformazione di questi posti di lavoro (affinché non sia appunto una perdita), come governare, insomma, e indirizzare, la riconversione ecologica dell'economia.

Uno dei «3 o 4 stabilimenti italiani a rischio» è per esempio la raffineria Eni di Livorno, i cui tentativi di vendita sono tutti naufragati. Ma quel che preoccupa è che sono completamente finite nel dimenticatoio anche le timide ipotesi fatte in passato relative a una sua riconversione. Quindi si cerca, un po' come accade per Termini Imerese, di nascondersi la verità e di drogarla ad uso e consumo delle generazioni (di votanti, si potrebbe chiosare) attuali. E questo purtroppo accade per le istituzioni (vedi il tira e molla Scajola-Tremonti sugli incentivi dopanti), ma accade anche per i sindacati (oggi accompagnati da Bertinotti sul Manifesto, sigh!), tutti presi a salvare l'oggi nel tentativo di procrastinare un ineluttabile futuro.

Se le prospettive per il mercato automobilistico appaiono abbastanza evidenti, bisogna ammettere che per quanto riguarda il petrolio qualche variabile in più c'è. Spiega sul Sole 24 ore di oggi Stefano Dotti, che l'esplosione dei futures di martedì sarebbe stata innescata dal convincimento che la lobby delle banche è talmente forte da superare indenne o quasi la recente alzata di scudi di Obama e Sarkozy sulle regole da dare alla finanza «che saranno meno rigide di quanto proposto, o addirittura potrebbero non passare». Dotti spiega quindi che «alcune banche vendono previsioni per il 2010 di aumento del 15% dei prezzi delle commodities, e questi pronostici si avverano quando il denaro degli investitori affluisce in misura massiccia», ma visto la stagnazione dei consumi, la bassa redditività dell'industria di trasformazione e visto che «solo il ricorso continuativo allo stoccaggio genera una domanda fittizia che non è facile capire come si potrà concludere», è necessario «nel medio termine qualche cambiamento di rotta».

Chi può e deve attuare il cambiamento, e in quale direzione deve andare questo cambiamento, lo andiamo dicendo ormai da anni, e fortunatamente cominciamo anche ad essere meno soli a dirlo.


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