domenica, marzo 28, 2010
L’Amore/Dio che si è fatto uomo è stato misconosciuto, combattuto, torturato e crocifisso. Ci attende di rivivere la sua Settimana di Passione, trepidi e tesi ad esserne intimamente partecipi, e non soltanto distratti spettatori di un dramma che rievochiamo da due millenni. Solo un dramma, non una tragedia, perché la sua morte si è trasfigurata in risurrezione. Con tutto il cuore preghiamo affinché Cristo inondi d’amore il nostro essere.

di Padre Piotr Anzulewicz, OFMConv

Domenica delle Palme - Ascoltando e meditando la Passione di Cristo restiamo allibiti, costernati, interdetti. Assistiamo al dramma della morte di Dio. Ecco Dio: reietto e abbandonato a se stesso, spegne la sua gloria divina e pende dal patibolo. E' il dramma, dice Luca nel suo Vangelo. Sì, il dramma dell'amore, quello vero, quello che lascia senza fiato, l’unico per il quale si può morire o morirne. E' il dramma della Passione, quella di Gesù, l’amore incarnato di Dio, per noi. Sì, Gesù è appassionato di noi. In lui amore e dolore si incontrano perfettamente, e in ciò la religione cristiana si presenta nella sua purezza originaria, ma anche nella sua durezza, simile a quella di un diamante tagliente e di una lama affilata che cura chirurgicamente l’animo umano incidendolo nel profondo. Noi siamo la sua Passione. «Noi siamo la crocifissione di Dio scrisse Simone Weil (+1943), mistica e filosofa francese. La mia esistenza crocifigge Dio, come noi amiamo un dolore intollerabile perché Dio ce lo manda, così è di questo stesso amore, trasposto dall’altro lato del cielo, che Dio ci ama. L’amore di Dio per noi è Passione. Come potrebbe il bene amare il male senza soffrire?». E' il dramma del Figlio di Dio che svela nella sua nudità crocifissa il vero volto di Dio. Nessun effetto speciale, nessuna flotta di angeli soccorritori, nessuna controfigura. Lui nudo, straziato e scarnificato è la trascrizione più vera del volto di Dio. Quell'uomo appeso alla croce, abbandonato e tradito è il nostro Dio. Un Dio senza bacchetta magica, che si china sui piedi sozzi dei suoi discepoli e li lava con cura, un Dio che consegna la sua memoria nel fragile gesto del pane spezzato, che non toglie il dolore, ma lo condivide, che non ci salva dalla morte, ma nella morte, che perdona e persino giustifica i suoi assassini, che muore abbandonato da tutti i suoi amici, paurosi e codardi, che nella solitudine più totale e straziante non maledice, ma consegna il suo spirito al Padre.

A commento del Vangelo di oggi leggiamo alcune righe del racconto autobiografico La nuit di Eliezer Wiesel (n. 1928), scrittore rumeno naturalizzato statunitense di cultura ebraica e di lingua francese, sopravvissuto ai lager nazisti di Auschwitz e di Buchenwald, dove vide «scomparire sua madre, una sorellina adorata e tutti i suoi tranne suo padre, nel forno alimentato da creature viventi». Poche righe, celebri ormai, emblema di ogni altra risposta rocciosa alle domande: Dio ci ama? Dio ci è vicino? Dio soffre? Perché Cristo, Figlio di Dio, al fine di redimere l’uomo, deve soffrire? Anzi, morire? Anzi, venire ucciso? Perché quell’«ora» a cui deve sottostare, è la stessa che si rivela nella carne del bambino innocente per sempre segnata dal male, fin dal primo istante in cui viene alla luce? Qual è la necessità di quel sangue innocente?

Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel [=un bambino, di cui lo scrittore ha parlato precedentemente], un angelo dagli occhi tristi. Le S.S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo. L’ombra della forca lo copriva. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. «Viva la libertà», gridarono i due adulti. Il piccolo taceva. «Dov’è il Buon Dio? Dov’è?», domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. All’orizzonte il sole tramontava. Noi piangevamo. Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora. Più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: «Dov’è dunque Dio?». e io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca» (E. Wiesel, La notte, Firenze 1980, 65-67).

Sì, proprio lì, tanto che tutto il dolore di marca umana e tutto l’amore non vano, cioè di Dio, sono uniti nel suo cuore, a far piaga e a trovarvi una sede. Lui non è solo nelle ceneri di Auschwitz, ma anche nel genocidio dei cristiani armeni, a Hiroshima, nei gulag dell’Unione Sovietica di Stalin. Lui soffre nei bambini handicappati, in quelli mutilati, sfruttati, schiavizzati ed abusati, nei poveri lasciati marcire nella loro miseria fisica, nei malati terminali, a cui finora non si davano le cure ‘palliative’, quelle per liberarli dall'atroce dolore fisico che tortura i malati di tumore.

La sua sofferenza sanguinante è anche la denuncia del nostro essere malvagi, sedotti dal male, peccatori e ingiusti. Quante volte il grido di morte «sia crocifisso» è risuonato lungo la storia: embrioni eliminati all'inizio della gravidanza, bambine sterminate appena nate perché non produttive per i dirigenti politici, donne costrette a prostituirsi ed essere schiave di aguzzini, acque e sangue delle risaie dell’Asia, paradisi massacrati dell’Africa! Potremmo continuare...

La risposta alla domanda: «Perché Cristo, Figlio di Dio, al fine di redimere l’uomo, deve soffrire? Anzi, morire? Anzi, venire ucciso?», è estremamente difficile e insieme straordinaria ed inimmaginabile: soltanto per amore il Cristo Gesù si è fatto uomo e si è lasciato dilaniare dalle nostre miserie e dalle nostre sofferenze. L'amore non chiede e non dà giustificazione di sé: 'è' e basta... poiché l’amore è Dio stesso...

La liberazione dal male va chiesta nella preghiera e procurata nella società civile non tanto per liberare noi, ma per liberare Dio che soffre nel dolore di ogni uomo che soffre. Dio è così mescolato al destino dei sofferenti e delle vittime! Questa è la preghiera che spinge l’«io sventurato« orante ad una preghiera vertiginosa: la preghiera non per la propria «liberazione dalla sofferenza», ma per la liberazione di Dio che soffre nel dolore di ogni uomo che soffre.

«Il nostro Dio non è un Dio lontano, intoccabile nella sua beatitudine: il nostro Dio ha un cuore. Anzi, ha un cuore di carne, si è fatto carne proprio per poter soffrire con noi ed essere con noi nelle nostre sofferenze. Si è fatto uomo per darci un cuore di carne e per risvegliare in noi l’amore per i sofferenti, per i bisognosi» (Benedetto XVI, Discorso al termine della Via crucis al Colosseo, 6 aprile 2007).

Buon cammino per i prossimi giorni! Lasciamoci trascinare dalla narrazione, riviviamo in noi i suoni, le tenebre e le luci dei tre giorni in cui Dio morì donando se stesso, riscattandoci dal peccato e dalla morte eterna, quella morte secunda di cui ci parla s. Francesco d’Assisi, e aprendoci alla vita vera, alla pienezza di vita, a Dio amore che è donazione di energia, energia che si dona e si spende, energia che gratuitamente si profonde nel cosmo ed è riconoscibile da ogni uomo, anche il più lontano, e comprensibile anche dagli animali, forse persino dalle piante. L’amore vero e universale, che non può stare a marcire in un sepolcro. L’amore, quello di Gesù, lo farà esplodere. E sarà Pasqua.

La nostra preghiera:

O nostro Signore Gesù, il più bel figlio di donna, incompreso, torturato, crocifisso... risveglia i nostri cuori, le nostre menti, aprici gli occhi, affinché vediamo tutto il dolore del mondo che tu hai preso su di te. Eri nel fiore della tua giovinezza, hanno chiuso la tua bocca, hanno misconosciuto tutto l'amore di cui ci avevi illuminati. Non hanno saputo accoglierti, amarti, allora e ancora oggi e sempre... finché non ritornerai nella gloria, come ci annuncia l'Apocalisse del tuo discepolo amato, Giovanni. Non stancarti di inondarci del tuo amore, noi tuoi fratelli, tardi a capire e ad amare... Amen

Piotr Anzulewicz OFMConv
panzulewicz@live.it


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