martedì, maggio 04, 2010
del nostro corrispondente Bartolo Salone

Il 14 aprile scorso la Corte costituzionale ha deciso, con una sentenza destinata a fare storia (la n. 138/2010), le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni giudici di merito (per la precisione, il Tribunale di Venezia e la Corte d’Appello di Trento) aventi ad oggetto quelle norme del codice civile che, interpretate sistematicamente, impediscono a persone del medesimo sesso di contrarre matrimonio. Tali norme sono state “sospettate” di incostituzionalità in riferimento, fra l’altro, agli artt. 2, 3 e 29 Cost., essendosi prospettato, da un lato, la lesione di un diritto inviolabile (quale sarebbe quello ad esprimere pienamente il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata quale è il matrimonio, una persona del proprio sesso), dall’altro, la violazione del principio di eguaglianza per l’ingiustificata disparità di trattamento che in questo modo si creerebbe tra coppie etero e coppie gay nell’accesso al matrimonio, fra i cui presupposti l’art. 29 Cost. non contemplerebbe la differenza di genere.

Tali argomentazioni non sono state riconosciute valide dal nostro Giudice delle leggi, il quale, nel respingere le questioni di costituzionalità così formulate, le ha dichiarate in parte inammissibili e in parte infondate. In particolare, la pronuncia di infondatezza ha riguardato le questioni proposte in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost. Sarà bene quindi ripercorrere, visto il dibattito politico in atto, le motivazioni utilizzate dalla Corte per ribadire la natura necessariamente eterosessuale del matrimonio, in quanto istituto giuridico fondativo di una comunità materiale e spirituale di persone quale è appunto la famiglia, in cui la differenza tra i sessi è elemento essenziale non solo in vista della sua basilare funzione procreativa, ma altresì in funzione del pieno raggiungimento della maturità affettiva e relazionale.

L’art. 29 Cost. esordisce affermando che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. E’ pur vero che non viene specificato che il matrimonio debba essere necessariamente tra uomo e donna; tuttavia ciò si desume, secondo la Corte costituzionale, da diversi elementi. Innanzitutto, dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente non risulta che la questione delle unioni omosessuali abbia formato oggetto di dibattito, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta all’epoca. D’altro canto, non si può negare che il matrimonio avesse una sua precisa conformazione e una articolata disciplina nell’ordinamento civile, ancor prima che venisse approvata nel 1947 la nuova Costituzione. Pertanto, in mancanza di elementi che depongano in senso contrario, “è inevitabile concludere che i costituenti tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile” del ’42, il quale stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi devono essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione (“Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”), che, “affermando il principio dell’eguaglianza giuridica e materiale dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna” all’interno del rapporto coniugale. E’ evidente che una disposizione di questo tenore non avrebbe senso ove fosse riferita alle unioni omosessuali, in cui il genere non potrebbe giammai essere fonte di disuguaglianza morale o giuridica.

“Non è casuale – continua la Corte – che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale”. Il particolare rilievo costituzionale dato alla famiglia legittima e al matrimonio tra uomo e donna dagli artt. 29 e 30 Cost. esclude altresì che si possa ravvisare una “irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Nelle prime, infatti, manca ogni finalità procreativa, anche solo in potenza. Ciò spiega il trattamento di favore che la nostra Costituzione riconosce attraverso il diritto al matrimonio unicamente alle coppie eterosessuali, in considerazione della loro peculiare funzione sociale. E’ quindi esclusa in radice la possibilità stessa della violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3; al contrario, potrebbe ipotizzarsi una lesione del principio di eguaglianza nell’opposta eventualità in cui il legislatore dovesse in futuro equiparare le unioni omosessuali al matrimonio.

Fermo restando quanto precede, la Corte si premura di precisare che le unioni omosessuali, proprio in quanto formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo, trovano un loro fondamento costituzionale nell’art. 2 Cost., a memoria del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Tale garanzia implicherebbe non solo che alle coppie omosessuali sia consentito di vivere liberamente, ma anche che esse ottengano – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Di conseguenza, “spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle unioni suddette”, mentre residua alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire in relazione ad ipotesi particolari “in cui sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione di coppia coniugata e quella di coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. Si tratta quindi di un vero e proprio “monito” rivolto al legislatore affinché metta mano ad una disciplina generale delle coppie omosessuali, in attuazione del principio di cui all’art. 2 Cost. Nel definire tale disciplina, il legislatore ha un’ampia discrezionalità, ancorché incontri i limiti del rispetto del principio di ragionevolezza e di non-equiparazione al matrimonio (istituto che per Costituzione rimane pur sempre precluso alle coppie gay).

Per quanto una soluzione del genere possa sembrare “prima facie” equilibrata, non bisogna nascondere i pericoli che essa dischiude, essendo rimessa al Parlamento la ricerca di un difficile bilanciamento tra il riconoscimento di diritti e di doveri per le coppie omosessuali, da una parte, e l’esigenza di preservare la natura specifica del matrimonio e della famiglia, quale delineata dall’art. 29 Cost., dall’altra. Il rischio che si corre è quello di svuotare di significato il contenuto dell’art. 29 Cost., usando impropriamente il grimaldello dell’art. 2 Cost. Senza considerare, peraltro, che l’art. 2 Cost. non è, in verità, norma posta a tutela delle formazioni sociali in sé e per sé considerate, bensì a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo all’interno delle formazioni medesime e che, tra le formazioni sociali cui la Costituzione fa riferimento, non sono ricomprese le unioni omosessuali. Rilievi, questi, che forse avrebbero dovuto indurre la Corte a ritenere, più cautamente, in capo al legislatore il potere di valutare autonomamente la meritevolezza o meno di un riconoscimento giuridico delle coppie gay, tenuto conto degli interessi in gioco e fermo restando ovviamente il divieto di equiparazione al matrimonio.

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