Cecilia Strada, presidente della Ong: "Da Kabul il via libera alla riapertura, ma il governatore dell'Helmand pone condizioni inaccettabili. Continueremo a trattare. La risposta alle critiche di chi afferma che Emergency non vuole lavorare con il minister.
PeaceReporter - Settanta posti letto vuoti, in zona di guerra. Da cento giorni, ormai. Il pressing di Emergency per arrivare a riattivare la struttura ospedaliera nell'Helmand ha ottenuto risultati positivi a livello centrale, ma sta incontrando la resistenza del governatore locale, che ha fissato delle condizioni che l'Ong non accetta. Lo racconta Emergency con un comunicato diffuso oggi.
Cecilia Strada è presidente di Emergency.
Via libera dalle autorità centrali, ostacoli a livello locale?
Il principale ostacolo sono le richieste che il governatore della provincia di Helmand ci ha fatto presentare da un suo portavoce o assistente. Sono sostanzialmente riassumibili in due punti: accettare la presenza di militari afgani che facciano da filtro all'entrata della struttura e assoggettarci al controllo e direzione del ministero della Sanità afgano.
Condizioni inaccettabili per voi?
Sul primo punto: avere dei soldati esterni alla struttura creerebbe un grande problema all'accesso dei feriti. Non solo per quelli che vengono dalle fila talebane, che hanno diritto secondo la convenzione di Ginevra alle cure, ma anche per i civili che vengono feriti dai soldati afgani o dalle truppe di Coalizione. Passare un check-point di chi ti ha sparato per farti curare avrebbe un forte effetto di dissuasione, ma anche i civili che appoggiano Karzai e le truppe afgane o quelle della Coalzione avrebbero dei problemi. Non accetteremmo mai di passare un check-point militare per accedere al Policlinico del Gemelli di Roma.
E per quanto riguarda il lavorare all'interno del sistema sanitario afgano?
La sanità afgana a nostro parere non ha ancora raggiunto quelle condizioni di autonomia che noi prevediamo per trasferire i nostri centri di cura. Per ora è uno scenario impossibile, basti pensare che oggi in Afghanistan la sanità pubblica è a pagamento e che la maggior parte dei nostri pazienti non si può pagare nemmeno un ticket. In questi giorni un bravo giornalista ha espresso una critica nei nostri confronti, affermando che noi lavoreremmo al di fuori del sistema sanitario nazionale. Noi rispettiamo le leggi afgane, inviamo regolarmente report al ministero e lo stesso ministero riconosce al centro di Kabul di essere un ottimo centro di formazione per chirurghi. Lavoriamo, quindi, con il ministero, non sotto il ministero. Rifiutiamo di adottare cure a pagamento e di bassa qualità, come non accettiamo che si possano scegliere i feriti. Se accettassimo quella condizione, per di più, tradiremmo il mandato dei nostri donatori, che sono quelli cui noi, alla fine, dobbiamo rispondere.
Cento giorni dopo, che notizie avete dei feriti nella zona di Lashkargah? Alcuni arrivano fino a Kabul?
Abbiamo diversi feriti che riescono ad arrivare a Kabul, ma ovviamente sono i feriti più lievi, perché quelli con grosse emorragie e ferite importanti non si possono fare seicento chilometri fino al centro della capitale. Un ospedale con 70 letti chiuso significa 70 pazienti che ogni giorno non hanno diritto alle cure.
Che cosa farete ora: continuerete a trattare, o questa impasse potrà portarvi a riconsiderare anche la vostra presenza in Afghanistan?
Restiamo nel Paese, perché siamo caparbi. Siamo presenti da undici anni e abbiamo un ospedale perfettamente attrezzato e personale capace che da cento giorni è chiuso. Questo ci fa rabbia. Abbiamo esposto più volte le nostre ragioni. All'ultima richiesta del governatore abbiamo ribadito che vogliamo riaprire la struttura nell'interesse della popolazione e adesso andiamo avanti con le trattative.
Un dato di coerenza diventa un elemento di critica: la neutralità.
La differenza con gli altri non è sulla neutralità, perché le grandi organizzazioni, dalla Croce rossa internazionale in poi, insegnano che è il senso del nostro lavoro. Quello che ci distingue da altre realtà è che spesso ci rimproverano per non stare zitti sullo schifo della guerra. Noi non possiamo tacere, perchè denunciare l'orrore della guerra è uno strumento - a nostro parere - per togliere sostegno alla guerra. Per far capire ai governanti, e soprattutto ai loro elettori, che la guerra è uno schifo e che per combattere il terrorismo e l'oscurantismo ci sono altri metodi più ragionevoli, meno sanguinosi e costosi. Più umani.
di Angelo Miotto
PeaceReporter - Settanta posti letto vuoti, in zona di guerra. Da cento giorni, ormai. Il pressing di Emergency per arrivare a riattivare la struttura ospedaliera nell'Helmand ha ottenuto risultati positivi a livello centrale, ma sta incontrando la resistenza del governatore locale, che ha fissato delle condizioni che l'Ong non accetta. Lo racconta Emergency con un comunicato diffuso oggi.
Cecilia Strada è presidente di Emergency.
Via libera dalle autorità centrali, ostacoli a livello locale?
Il principale ostacolo sono le richieste che il governatore della provincia di Helmand ci ha fatto presentare da un suo portavoce o assistente. Sono sostanzialmente riassumibili in due punti: accettare la presenza di militari afgani che facciano da filtro all'entrata della struttura e assoggettarci al controllo e direzione del ministero della Sanità afgano.
Condizioni inaccettabili per voi?
Sul primo punto: avere dei soldati esterni alla struttura creerebbe un grande problema all'accesso dei feriti. Non solo per quelli che vengono dalle fila talebane, che hanno diritto secondo la convenzione di Ginevra alle cure, ma anche per i civili che vengono feriti dai soldati afgani o dalle truppe di Coalizione. Passare un check-point di chi ti ha sparato per farti curare avrebbe un forte effetto di dissuasione, ma anche i civili che appoggiano Karzai e le truppe afgane o quelle della Coalzione avrebbero dei problemi. Non accetteremmo mai di passare un check-point militare per accedere al Policlinico del Gemelli di Roma.
E per quanto riguarda il lavorare all'interno del sistema sanitario afgano?
La sanità afgana a nostro parere non ha ancora raggiunto quelle condizioni di autonomia che noi prevediamo per trasferire i nostri centri di cura. Per ora è uno scenario impossibile, basti pensare che oggi in Afghanistan la sanità pubblica è a pagamento e che la maggior parte dei nostri pazienti non si può pagare nemmeno un ticket. In questi giorni un bravo giornalista ha espresso una critica nei nostri confronti, affermando che noi lavoreremmo al di fuori del sistema sanitario nazionale. Noi rispettiamo le leggi afgane, inviamo regolarmente report al ministero e lo stesso ministero riconosce al centro di Kabul di essere un ottimo centro di formazione per chirurghi. Lavoriamo, quindi, con il ministero, non sotto il ministero. Rifiutiamo di adottare cure a pagamento e di bassa qualità, come non accettiamo che si possano scegliere i feriti. Se accettassimo quella condizione, per di più, tradiremmo il mandato dei nostri donatori, che sono quelli cui noi, alla fine, dobbiamo rispondere.
Cento giorni dopo, che notizie avete dei feriti nella zona di Lashkargah? Alcuni arrivano fino a Kabul?
Abbiamo diversi feriti che riescono ad arrivare a Kabul, ma ovviamente sono i feriti più lievi, perché quelli con grosse emorragie e ferite importanti non si possono fare seicento chilometri fino al centro della capitale. Un ospedale con 70 letti chiuso significa 70 pazienti che ogni giorno non hanno diritto alle cure.
Che cosa farete ora: continuerete a trattare, o questa impasse potrà portarvi a riconsiderare anche la vostra presenza in Afghanistan?
Restiamo nel Paese, perché siamo caparbi. Siamo presenti da undici anni e abbiamo un ospedale perfettamente attrezzato e personale capace che da cento giorni è chiuso. Questo ci fa rabbia. Abbiamo esposto più volte le nostre ragioni. All'ultima richiesta del governatore abbiamo ribadito che vogliamo riaprire la struttura nell'interesse della popolazione e adesso andiamo avanti con le trattative.
Un dato di coerenza diventa un elemento di critica: la neutralità.
La differenza con gli altri non è sulla neutralità, perché le grandi organizzazioni, dalla Croce rossa internazionale in poi, insegnano che è il senso del nostro lavoro. Quello che ci distingue da altre realtà è che spesso ci rimproverano per non stare zitti sullo schifo della guerra. Noi non possiamo tacere, perchè denunciare l'orrore della guerra è uno strumento - a nostro parere - per togliere sostegno alla guerra. Per far capire ai governanti, e soprattutto ai loro elettori, che la guerra è uno schifo e che per combattere il terrorismo e l'oscurantismo ci sono altri metodi più ragionevoli, meno sanguinosi e costosi. Più umani.
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