Si è conclusa positivamente stamani la vicenda dei 205 rifugiati eritrei detenuti in condizioni drammatiche da 16 giorni nel carcere di Braq, nel sud della Libia.
Radio Vaticana - Sono stati rilasciati insieme con gli altri connazionali rinchiusi nei centri di detenzione di varie zone del Paese. In tutto sarebbero 400. Secondo fonti locali, prima del rilascio i rifugiati sarebbero stati ascoltati dalla commissione d'inchiesta istituita dal leader libico Gheddafi e avrebbero ribadito di non volere lasciare il Paese e di dichiararsi richiedenti asilo. Soddisfazione è stata espressa in ambito internazionale anche se restano poco chiare le condizioni del rilascio. A seguire da vicino la vicenda Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i Rifugiati. Sentiamolo al microfono di Gabriella Ceraso (ascolta):
R. – Sono stati liberati tutti quanti e poi, trasferiti a Sebah, hanno ricevuto un documento libico valido per tre mesi che permette anche di lavorare in Libia. Per rinnovare questo documento libico si dovrebbe presentare un passaporto eritreo e, naturalmente, questo per loro è impossibile. Questo, comunque, si vedrà in un secondo momento.
D. – Quindi, rispetto a quelli che erano gli accordi per il loro rilascio, a quei “lavori socialmente utili” che erano stati citati, che cosa è cambiato?
R. – Su questo non abbiamo ancora un’idea molto chiara. Mi sembra però che loro siano liberi di muoversi, che possano lavorare presso i comuni. Non mi risulta che ci sia un obbligo in questo senso. Comunque questo è di minore importanza. Innanzitutto, devo dire che siamo molto contenti per loro che sono finalmente liberi. Pensiamo che comunque l’attenzione che c’è stata in Italia - ma anche a livello internazionale – abbia certamente avuto un impatto molto importante.
D. – Lei ritiene che siano sufficientemente protetti in questa fase?
R. – Naturalmente non sono sufficientemente protetti perché non hanno uno status di rifugiati, non sono richiedenti asilo perché non esiste questa possibilità in Libia. La loro è una protezione temporanea e fragile e, certamente, non rispecchia la loro vera condizione di rifugiati. Non siamo tranquilli, però siamo convinti che è un primo passo dal punto di vista della sopravvivenza e per evitare anche la deportazione verso l’Eritrea. Poi sarà necessario seguire la situazione e penso che proprio l’Italia, sulla base degli impegni presi e delle responsabilità che risultano dal trattato di amicizia tra Libia e Italia, certamente avrà ancora, nel futuro, un ruolo fondamentale di garante.
D. – Certo, sarebbe più sicuro che si potessero reinsediare in un altro Paese, in un Paese europeo…
R. – Questa richiesta rimane. Abbiamo chiesto anche un incontro con il ministro dell’Interno Maroni per presentare le nostre proposte concrete. C’è naturalmente anche una condivisione di responsabilità attraverso un programma ad hoc di re-insediamento di un certo numero di rifugiati che rimane assolutamente in piedi come richiesta e soluzione.
D. – A livello di tutela dei diritti umani, a livello di rispetto e di convenzioni internazionali, a livello di condizioni carcerarie, questo episodio ha insegnato qualcosa e soprattutto può costituire un precedente per sbloccare eventuali situazioni simili?
R. – Innanzitutto bisogna dire che quando si fanno accordi con i cosiddetti Paesi terzi, fuori dall’Unione Europea – sia la Libia che altri Paesi – a livello bilaterale o anche multilaterale, la questione dei diritti umani in generale e all’interno di questi il diritto d’asilo deve essere un punto fondamentale del negoziato. Questa penso sia una lezione che interessa anche l’Unione Europea e quindi non ci può essere un negoziato sul commercio, sul turismo, sullo scambio di servizi e capitali e così via se non c’è questa dimensione.
Poco dopo la liberazione, la collega della redazione francese della nostra emittente, Mathilde Auvillain, è riuscita a raccogliere telefonicamente la testimonianza di uno dei rifugiati eritrei, che ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza (ascolta):
R. – Here we are over 200 Eritreans...
Qui siamo più di 200 eritrei e vaghiamo per la città. Siamo indifesi, non abbiamo cibo, acqua. Le autorità del governo libico ci hanno detto che siamo liberi dal carcere di Braq. Poi ci hanno portati a Sebha ma senza carta d’identità che ci consentirebbe di muoverci liberamente in Libia. Ci hanno portato a Sebha e ci hanno detto di chiedere il documento di identificazione. Lo abbiamo richiesto e siamo rimasti nel centro di detenzione di Sebha per una notte. Adesso ci hanno fatto lasciare questo centro di detenzione e ora noi giriamo per la città, indifesi, senza cibo, acqua e nessuno che ci aiuti. Inoltre, essedo chiuso tutti i checkpoint, non ci è permesso di andare a Tripoli. Noi siamo richiedenti asilo e rifugiati politici e abbiamo bisogno della protezione da parte della comunità internazionale. Con amarezza, e essendo in grande necessità, ci rivolgiamo alla comunità internazionale affinché si trovi una soluzione. La trovi per noi che siamo stati oppressi, per noi che siamo stati torturati, per noi che siamo rimasti senza tutela in questo mondo.
Radio Vaticana - Sono stati rilasciati insieme con gli altri connazionali rinchiusi nei centri di detenzione di varie zone del Paese. In tutto sarebbero 400. Secondo fonti locali, prima del rilascio i rifugiati sarebbero stati ascoltati dalla commissione d'inchiesta istituita dal leader libico Gheddafi e avrebbero ribadito di non volere lasciare il Paese e di dichiararsi richiedenti asilo. Soddisfazione è stata espressa in ambito internazionale anche se restano poco chiare le condizioni del rilascio. A seguire da vicino la vicenda Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i Rifugiati. Sentiamolo al microfono di Gabriella Ceraso (ascolta):
R. – Sono stati liberati tutti quanti e poi, trasferiti a Sebah, hanno ricevuto un documento libico valido per tre mesi che permette anche di lavorare in Libia. Per rinnovare questo documento libico si dovrebbe presentare un passaporto eritreo e, naturalmente, questo per loro è impossibile. Questo, comunque, si vedrà in un secondo momento.
D. – Quindi, rispetto a quelli che erano gli accordi per il loro rilascio, a quei “lavori socialmente utili” che erano stati citati, che cosa è cambiato?
R. – Su questo non abbiamo ancora un’idea molto chiara. Mi sembra però che loro siano liberi di muoversi, che possano lavorare presso i comuni. Non mi risulta che ci sia un obbligo in questo senso. Comunque questo è di minore importanza. Innanzitutto, devo dire che siamo molto contenti per loro che sono finalmente liberi. Pensiamo che comunque l’attenzione che c’è stata in Italia - ma anche a livello internazionale – abbia certamente avuto un impatto molto importante.
D. – Lei ritiene che siano sufficientemente protetti in questa fase?
R. – Naturalmente non sono sufficientemente protetti perché non hanno uno status di rifugiati, non sono richiedenti asilo perché non esiste questa possibilità in Libia. La loro è una protezione temporanea e fragile e, certamente, non rispecchia la loro vera condizione di rifugiati. Non siamo tranquilli, però siamo convinti che è un primo passo dal punto di vista della sopravvivenza e per evitare anche la deportazione verso l’Eritrea. Poi sarà necessario seguire la situazione e penso che proprio l’Italia, sulla base degli impegni presi e delle responsabilità che risultano dal trattato di amicizia tra Libia e Italia, certamente avrà ancora, nel futuro, un ruolo fondamentale di garante.
D. – Certo, sarebbe più sicuro che si potessero reinsediare in un altro Paese, in un Paese europeo…
R. – Questa richiesta rimane. Abbiamo chiesto anche un incontro con il ministro dell’Interno Maroni per presentare le nostre proposte concrete. C’è naturalmente anche una condivisione di responsabilità attraverso un programma ad hoc di re-insediamento di un certo numero di rifugiati che rimane assolutamente in piedi come richiesta e soluzione.
D. – A livello di tutela dei diritti umani, a livello di rispetto e di convenzioni internazionali, a livello di condizioni carcerarie, questo episodio ha insegnato qualcosa e soprattutto può costituire un precedente per sbloccare eventuali situazioni simili?
R. – Innanzitutto bisogna dire che quando si fanno accordi con i cosiddetti Paesi terzi, fuori dall’Unione Europea – sia la Libia che altri Paesi – a livello bilaterale o anche multilaterale, la questione dei diritti umani in generale e all’interno di questi il diritto d’asilo deve essere un punto fondamentale del negoziato. Questa penso sia una lezione che interessa anche l’Unione Europea e quindi non ci può essere un negoziato sul commercio, sul turismo, sullo scambio di servizi e capitali e così via se non c’è questa dimensione.
Poco dopo la liberazione, la collega della redazione francese della nostra emittente, Mathilde Auvillain, è riuscita a raccogliere telefonicamente la testimonianza di uno dei rifugiati eritrei, che ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza (ascolta):
R. – Here we are over 200 Eritreans...
Qui siamo più di 200 eritrei e vaghiamo per la città. Siamo indifesi, non abbiamo cibo, acqua. Le autorità del governo libico ci hanno detto che siamo liberi dal carcere di Braq. Poi ci hanno portati a Sebha ma senza carta d’identità che ci consentirebbe di muoverci liberamente in Libia. Ci hanno portato a Sebha e ci hanno detto di chiedere il documento di identificazione. Lo abbiamo richiesto e siamo rimasti nel centro di detenzione di Sebha per una notte. Adesso ci hanno fatto lasciare questo centro di detenzione e ora noi giriamo per la città, indifesi, senza cibo, acqua e nessuno che ci aiuti. Inoltre, essedo chiuso tutti i checkpoint, non ci è permesso di andare a Tripoli. Noi siamo richiedenti asilo e rifugiati politici e abbiamo bisogno della protezione da parte della comunità internazionale. Con amarezza, e essendo in grande necessità, ci rivolgiamo alla comunità internazionale affinché si trovi una soluzione. La trovi per noi che siamo stati oppressi, per noi che siamo stati torturati, per noi che siamo rimasti senza tutela in questo mondo.
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