martedì, luglio 27, 2010
Si è concluso il vertice di Kamapala, dominato dalla questione somala. Tutti d'accordo sulla necessità di dover fare qualcosa, ma cosa?

di Alberto Tundo

PeaceReporter - Doveva essere il vertice dedicato alla mortalità infantile e agli investimenti infrastrutturali ma sarà dominato dalla questione somala. L'Unione Africana, riunita Kampala dal 19 al 27 luglio, ha dovuto prendere atto che la Somalia è diventata un problema continentale. Cosa fare di fronte alla crescita delle milizie islamiche di Al Shabaab e all'impotenza di un governo, quello transitorio, che sembra più che altro una sagoma di cartapesta?

Una prima decisione è stata già presa: Amisom, la missione di peacekeeping dell'Unione Africana diventerà una missione di peace enforcing. In soldoni, cambieranno le modalità operative e i limiti cui è soggetto il contingente di 6300 soldati inviato dall'Unione Africana. Allo stesso modo, saranno previsti stanziamenti supplementari e un ampiamento della dotazione militare a disposizione dei soldati. Dopotutto, non si poteva continuare a far finta che ci fosse una pace da difendere. Il peacekeeping era progressivamente diventato un'illusione e un nonsenso al tempo stesso. Prossimamente ne discuteranno insieme il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana e quello dell'Onu. Ma l'ipotesi che possano essere le Nazioni Unite a prendere in mano la partita, è sempre sul tavolo. Intanto Gibuti e Guinea hanno annunciato di essere disposti a inviare mille soldati per incrementare le risorse a disposizione sul terreno, operazione che porterà il numero degli operativi schierati in Somalia a ottomila unità. Troppo poco, dice il Kenya, che vorrebbe fossero mobilitati 20 mila soldati ma della Stanby EastAfrica Brigade, la forza di reazione dell'Igad, l'Intergovernmental Authority on Development, l'organizzazione regionale che riunisce i Paesi dell'Africa orientale. Una proposta che sembra già rigettata e mette in luce la mancanza di una strategia comune.
L'attivismo di Museveni. Sembra andare per gli affari suoi l'Uganda, il Paese che più si è impegnato in Somalia, il maggior contribuente in termini di uomini per Amisom,e che ha pagato questo impegno con due bombe e 76 morti lo scorso 11 luglio. Il presidente Yoweri Museveni da giorni cavalca le emozioni dei suoi cittadini e fa dichiarazioni bellicose. In ballo non c'è solo la possibilità di coagulare consenso all'interno ma anche di raccogliere risorse dall'esterno. L'Uganda riceve ogni anno 33 milioni di dollari come contributo per quei quattromila soldati schierati in Somalia. Adesso che l'Unione Africana si muove e mobilita risorse ingenti, in ballo ci sono cifre ben più ragguardevoli. Senza contare le ricadute diplomatiche. Museveni mira a consolidare i suoi legami - già molto stretti - con Washington, che teme la crescita della milizia filo-qaedista nel Corno d'Africa ed è pronta ad aprire il portafoglio e a trasferire tecnologia militare in quantità. Secondo voci di corridoio, Stati Uniti e Gran Bretagna avrebbero dato un'informale benedizione ad un eventuale intervento unilaterale di Kampala. Un'opzione che lo stato maggiore ugandese sta valutando attentamente. Il portavoce del ministero dell'Esercito e della Difesa, il Luogotenente-Colonnello Felix Kulaigye ha dichiarato di recente: "Siamo uno degli eserciti africani più efficienti e siamo in grado di difendere il Paese ovunque, anche in Somalia". Non sembra essere un caso, pertanto, che negli ultimi giorni l'arsenale dell'aviazione ugandese sia stato ampliato. Ci sono limiti oggettivi, però. Manca il consenso dei partner africani come anche una base legale. Quest'ultima però si potrebbe anche trovare. E' in giacenza infatti la domanda d'ammissione del governo di transizione somalo all'International Conference of Great Lakes Region, un forum regionale regolato dal Patto di Nairobi che prevede, tra l'altro, il divieto di aggressione tra i membri e il principio di mutua difesa. Se quella domanda fosse accettata, Kampala potrebbe sguinzagliare il suo esercito in Somalia.

Milizie islamiche nel nord. Qualunque cosa si decida di fare, andrebbe fatta subito,perché il Paese va sgretolandosi velocemente. Il sud e il centro sono già quasi totalmente nelle mani di Al Shabaab e delle altre schegge fuoriuscite dalle Corti Islamiche, e anche la capitale non sembra proprio inespugnabile. Non c'è ordine e sicurezza nemmeno nel nord; nei due staterelli autoproclamatisi indipendenti del Puntland e del somaliland scontri tra le truppe locali e formazioni d'impronta jihadista sono all'ordine del giorno. Nel primo, è attivo un gruppo noto come Galgala, responsabile della morte di una cinquantina di funzionari governatvi assassinati negli ultimi mesi, molto forte nella omonima regione a est di Bosasso, e guidato dallo sceicco Mohammed Said Atom, già sulla lista dei ricercati firmata dal presidente americano Barack Obama. L'ultima azione si è registrata il 25 luglio, quando una cellula ha attaccato soldati del governo a Karin, una quarantina di chilometri da Bosasso. L'asssalto, secondo quanto riferito da fonti governative a Radio Garowe, si sarebbe concluso con l'uccisione di 10 miliziani e la cattura di uno dei capi del gruppo. Nel Somaliland, invece, si muove un'altra scheggia delle Corti Islamiche, Sool, Sanaag e Cayn (Ssc), dal nome delle tre aree che il gruppo vuole liberare. Da maggio, nel Somaliland, l'Ufficio per i profughi e rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) conta quasi duemila dispersi. Dietro ciascuna delle due formazioni, gli analisti somali e americani vedono l'ombra di Al-Shabaab e l'impronta di Al Qaeda.

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