La strage di Ustica sembra un tunnel senza fondo. Non è stata una «strage» lontana dalla provincia di Trapani. E continua ad inseguirci.
Liberainformazione - Il Dc 9 Itavia caduto il 27 giugno 1980 nel mare di Ustica, «vittima» di quella «guerra segreta» che per 30 anni anche le nostre autorità hanno tentato di tenere nascosta, ha colpito i trapanesi al solito però rimasti distratti, intanto con la morte di nove adulti e tre bambini della provincia: Bosco Alberto, da Valderice di anni 41; i mazaresi Diodato Antonella, di anni 7; Diodato Giuseppe, di anni 1; Diodato Vincenzo, di anni 10; Gallo Vito, di anni 25; Guarano Andrea, da Valderice di anni 38; Guzzo Rita, da Marsala di anni 30; Lupo Francesca, da Castelvetrano di anni 17; Lupo Giovanna, da Mazara di anni 32; Norrito Guglielmo, da Campobello di Mazara di anni 37; Parrinello Carlo, da Marsala di anni 43; Parrinello Francesca, da Marsala di anni 49. Furono tra quegli 81 morti del Dc 9.
Una «strage» che non è lontana per via di quei radar del centro dell’Aeronautica di Marsala che «hanno visto» e ci hanno detto per anni «di non avere visto» quello che è accaduto la sera del 27 giugno 80 sopra il Tirreno, marescialli e militari che avrebbero avuto l’ordine di fare sparire brogliacci e tracciati, protagonisti dei depistaggi, raccontarono che nell’istante in cui l’aereo in arrivo a Palermo da Bologna veniva colpito da un missile, i radar di Marsala non erano funzionanti, «per una esercitazione in corso». Il giudice istruttore Rosario Priore venne più volte a Marsala a indagare, in ultimo in Procura un paio di anni fa per nuovi interrogatori; un’altra volta a cercare tracciati che l’ufficiale di turno gli avrebbe consegnato con un verbale nel quale era scritta una diffida (al magistrato) a fare un «uso discreto di quel materiale».
Dopo Ustica ci sono state una serie di morti «strane», possibili testimoni deceduti in incidenti, o che hanno deciso di farla finita, suicidandosi. È di queste settimane la scoperta di un altro possibile suicidio da legare ad Ustica. Non c’è la certezza, ma il sospetto è forte e serio.
Si chiamava Giovanni Marino, sessantenne, maresciallo dell’Aeronautica, originario di Corleone. Il 29 luglio del 2008, quando era oramai in pensione, si presentò alla base del 37° stormo di Birgi per consegnare uno scatolone e andare via. Si rimise sulla sua auto, imboccò l’autostrada per Palermo, alla prima piazzola di sosta si fermò, scese dall’auto e si uccise. Un colpo di pistola alla tempia, un automobilista di passaggio diede l’allarme notando l’auto ferma e vicino un corpo disteso a terra, dentro la cunetta.
Cosa c’entra Giovanni Marino con Ustica? C’entra quanto pare qualcosa. Voci non confermate dicono che lui nel giugno 1980 era in servizio al centro radar di Marsala. Certamente è stato in servizio al «centro di ascolto» di Prizzi, base dipendente sempre dal 37° Stormo, centro attrezzato ad avere occhi ed orecchie giuste per guardare ciò che accade sopra i nostri cieli.
I fatti anomali sono diversi: all’autorità giudiziaria, Procura di Trapani, che indagò sul suicidio, decidendo poi per l’archiviazione, nessuna autorità militare ha mai riferito la circostanza che Marino aveva lavorato in questi due centri. Potevano essere elementi indispensabili per risalire al perché di quel gesto liquidato come frutto di una crisi personale. Crisi personale che è negata ancora oggi da alcuni familiari che però chiedono silenzio sul dramma che ancora vivono.
Eppure chi c’era quel giorno del 2008 ricorda anche che il suicidio di Marino a pochi metri dalla base di Birgi scatenò una serie di movimenti di alti ufficiali. Si potrebbe dire che fu determinato dalla paura di cosa poteva contenere quello scatolone lasciato da Marino alla base prima di uccidersi. Ma cosa c’era dentro? Carte, accertò la magistratura, ma c’erano solo carte o poteva esserci anche qualcos’altro fatto sparire prima della consegna all’autorità giudiziaria? Nastri per esempio. Dicevamo, per i suoi familiari niente fece presagire l’insano gesto del maresciallo, ma a qualche investigatore da militari dell’Aeronautica sarebbe stato fatto cenno ad un «esaurimento nervoso» dell’ex sottufficiale. Una malattia che conoscevano solo loro, sebbene lui in caserma non andava più da qualche tempo.
Il rischio è serio. Quello che la verità su Ustica possa essere a portata di mano e restare non acciuffata. Il Governo si è mosso con le rogatorie internazionali, per cercare all’estero le prove di qualcosa che potrebbe essere tenuto nascosto dai nostri servizi segreti. E mentre da una parte il Governo sembra volere fare, dall’altra parte, con la proposta di legge sulle intercettazioni, si vuole inserire la prerogativa per qualsiasi agente dei servizi di rifiutarsi di deporre davanti a una qualsiasi autorità giudiziaria. Insomma se su Ustica fosse necessario raccogliere la testimonianza di un nostro 007, questi potrebbe girare le spalle al magistrato, se la norma diventerà legge.
Ma il contesto che circonda la strage di Ustica non è segnato solo dai tentativi di depistaggio, dalle morti «strane», dalle frasi sconnesse di alti ufficiali che in un primo momento dissero che l’aereo era caduto perché vecchio e corroso dalla salsedine delle casse di pesce che una volta trasportava, quando era aereo merci prima di diventare aereo per trasporto passeggeri, ma è segnato anche dal ricordo affievolito per quei morti, finiti con l’essere «solo» dei loro familiari e non della collettività.
Illuminanti sono state le testimonianze di tre persone, familiari delle vittime, che lunedì 5 luglio presso la scuola di contrada Pegno di Erice hanno ricordato gli scenari che hanno causato la morte dei loro cari. «Lo Stato siamo noi è vero - dice la prof. Enza Lupo che nel disastro ha perduto due sorelle e i nipoti - e quindi potremmo dire che una reazione istituzionale c’è stata e c’è, ma la verità è anche un’altra, lo Stato sono i cittadini ma a comandare sono altri». «Ho atteso giorni e giorni - prosegue la prof. Lupo - che le istituzioni mi chiamassero, invano, e quando mi sono fatta avanti per sollecitare un ricordo, una manifestazione da qualcuno mi sono sentito dire che soldi non ce ne erano e quelli che c’erano andavano spesi per la derattizzazione, altri mi hanno detto che c’erano altre cose da fare». Enza Lupo insegna in una scuola superiore, svela: «I ragazzi, gli studenti di Ustica non sanno nulla, conoscono la storia del Paese, ma fino ad un certo punto, Ustica non c’è, secondo me dovrebbe esserci assieme alle altre stragi che hanno colpito l’Italia e non sono stati solo eventi terroristici». «Io non ho conosciuto mio padre - dice il valdericino Enzo Bosco - avevo 18 mesi quando è morto sull’aereo, sono cresciuto amareggiato per via del ricordo che qui non c’è stato o se c’è stato è stato solo circoscritto a pochi momenti. Ora l’atmosfera sta cambiando, spero che si possa arrivare alla verità e a un maggiore coinvolgimento della società, il dolore non è nostro è deve essere di tutti. «Oggi - aggiunge il fratello, Claudio Bosco - Ustica non è più un caso nostro, e ci sta insegnando ad avere più coraggio».
Liberainformazione - Il Dc 9 Itavia caduto il 27 giugno 1980 nel mare di Ustica, «vittima» di quella «guerra segreta» che per 30 anni anche le nostre autorità hanno tentato di tenere nascosta, ha colpito i trapanesi al solito però rimasti distratti, intanto con la morte di nove adulti e tre bambini della provincia: Bosco Alberto, da Valderice di anni 41; i mazaresi Diodato Antonella, di anni 7; Diodato Giuseppe, di anni 1; Diodato Vincenzo, di anni 10; Gallo Vito, di anni 25; Guarano Andrea, da Valderice di anni 38; Guzzo Rita, da Marsala di anni 30; Lupo Francesca, da Castelvetrano di anni 17; Lupo Giovanna, da Mazara di anni 32; Norrito Guglielmo, da Campobello di Mazara di anni 37; Parrinello Carlo, da Marsala di anni 43; Parrinello Francesca, da Marsala di anni 49. Furono tra quegli 81 morti del Dc 9.
Una «strage» che non è lontana per via di quei radar del centro dell’Aeronautica di Marsala che «hanno visto» e ci hanno detto per anni «di non avere visto» quello che è accaduto la sera del 27 giugno 80 sopra il Tirreno, marescialli e militari che avrebbero avuto l’ordine di fare sparire brogliacci e tracciati, protagonisti dei depistaggi, raccontarono che nell’istante in cui l’aereo in arrivo a Palermo da Bologna veniva colpito da un missile, i radar di Marsala non erano funzionanti, «per una esercitazione in corso». Il giudice istruttore Rosario Priore venne più volte a Marsala a indagare, in ultimo in Procura un paio di anni fa per nuovi interrogatori; un’altra volta a cercare tracciati che l’ufficiale di turno gli avrebbe consegnato con un verbale nel quale era scritta una diffida (al magistrato) a fare un «uso discreto di quel materiale».
Dopo Ustica ci sono state una serie di morti «strane», possibili testimoni deceduti in incidenti, o che hanno deciso di farla finita, suicidandosi. È di queste settimane la scoperta di un altro possibile suicidio da legare ad Ustica. Non c’è la certezza, ma il sospetto è forte e serio.
Si chiamava Giovanni Marino, sessantenne, maresciallo dell’Aeronautica, originario di Corleone. Il 29 luglio del 2008, quando era oramai in pensione, si presentò alla base del 37° stormo di Birgi per consegnare uno scatolone e andare via. Si rimise sulla sua auto, imboccò l’autostrada per Palermo, alla prima piazzola di sosta si fermò, scese dall’auto e si uccise. Un colpo di pistola alla tempia, un automobilista di passaggio diede l’allarme notando l’auto ferma e vicino un corpo disteso a terra, dentro la cunetta.
Cosa c’entra Giovanni Marino con Ustica? C’entra quanto pare qualcosa. Voci non confermate dicono che lui nel giugno 1980 era in servizio al centro radar di Marsala. Certamente è stato in servizio al «centro di ascolto» di Prizzi, base dipendente sempre dal 37° Stormo, centro attrezzato ad avere occhi ed orecchie giuste per guardare ciò che accade sopra i nostri cieli.
I fatti anomali sono diversi: all’autorità giudiziaria, Procura di Trapani, che indagò sul suicidio, decidendo poi per l’archiviazione, nessuna autorità militare ha mai riferito la circostanza che Marino aveva lavorato in questi due centri. Potevano essere elementi indispensabili per risalire al perché di quel gesto liquidato come frutto di una crisi personale. Crisi personale che è negata ancora oggi da alcuni familiari che però chiedono silenzio sul dramma che ancora vivono.
Eppure chi c’era quel giorno del 2008 ricorda anche che il suicidio di Marino a pochi metri dalla base di Birgi scatenò una serie di movimenti di alti ufficiali. Si potrebbe dire che fu determinato dalla paura di cosa poteva contenere quello scatolone lasciato da Marino alla base prima di uccidersi. Ma cosa c’era dentro? Carte, accertò la magistratura, ma c’erano solo carte o poteva esserci anche qualcos’altro fatto sparire prima della consegna all’autorità giudiziaria? Nastri per esempio. Dicevamo, per i suoi familiari niente fece presagire l’insano gesto del maresciallo, ma a qualche investigatore da militari dell’Aeronautica sarebbe stato fatto cenno ad un «esaurimento nervoso» dell’ex sottufficiale. Una malattia che conoscevano solo loro, sebbene lui in caserma non andava più da qualche tempo.
Il rischio è serio. Quello che la verità su Ustica possa essere a portata di mano e restare non acciuffata. Il Governo si è mosso con le rogatorie internazionali, per cercare all’estero le prove di qualcosa che potrebbe essere tenuto nascosto dai nostri servizi segreti. E mentre da una parte il Governo sembra volere fare, dall’altra parte, con la proposta di legge sulle intercettazioni, si vuole inserire la prerogativa per qualsiasi agente dei servizi di rifiutarsi di deporre davanti a una qualsiasi autorità giudiziaria. Insomma se su Ustica fosse necessario raccogliere la testimonianza di un nostro 007, questi potrebbe girare le spalle al magistrato, se la norma diventerà legge.
Ma il contesto che circonda la strage di Ustica non è segnato solo dai tentativi di depistaggio, dalle morti «strane», dalle frasi sconnesse di alti ufficiali che in un primo momento dissero che l’aereo era caduto perché vecchio e corroso dalla salsedine delle casse di pesce che una volta trasportava, quando era aereo merci prima di diventare aereo per trasporto passeggeri, ma è segnato anche dal ricordo affievolito per quei morti, finiti con l’essere «solo» dei loro familiari e non della collettività.
Illuminanti sono state le testimonianze di tre persone, familiari delle vittime, che lunedì 5 luglio presso la scuola di contrada Pegno di Erice hanno ricordato gli scenari che hanno causato la morte dei loro cari. «Lo Stato siamo noi è vero - dice la prof. Enza Lupo che nel disastro ha perduto due sorelle e i nipoti - e quindi potremmo dire che una reazione istituzionale c’è stata e c’è, ma la verità è anche un’altra, lo Stato sono i cittadini ma a comandare sono altri». «Ho atteso giorni e giorni - prosegue la prof. Lupo - che le istituzioni mi chiamassero, invano, e quando mi sono fatta avanti per sollecitare un ricordo, una manifestazione da qualcuno mi sono sentito dire che soldi non ce ne erano e quelli che c’erano andavano spesi per la derattizzazione, altri mi hanno detto che c’erano altre cose da fare». Enza Lupo insegna in una scuola superiore, svela: «I ragazzi, gli studenti di Ustica non sanno nulla, conoscono la storia del Paese, ma fino ad un certo punto, Ustica non c’è, secondo me dovrebbe esserci assieme alle altre stragi che hanno colpito l’Italia e non sono stati solo eventi terroristici». «Io non ho conosciuto mio padre - dice il valdericino Enzo Bosco - avevo 18 mesi quando è morto sull’aereo, sono cresciuto amareggiato per via del ricordo che qui non c’è stato o se c’è stato è stato solo circoscritto a pochi momenti. Ora l’atmosfera sta cambiando, spero che si possa arrivare alla verità e a un maggiore coinvolgimento della società, il dolore non è nostro è deve essere di tutti. «Oggi - aggiunge il fratello, Claudio Bosco - Ustica non è più un caso nostro, e ci sta insegnando ad avere più coraggio».
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