La nostra collaboratrice a Gerusalemme Raffaela Corrias ci parla di un nuovo esperimento per l'integrazione in Medioriente: gruppi di studenti ebrei e palestinesi che si incontrano per conoscersi, discutere e superare ogni barriera...
È agosto, ma le porte della Hebrew University di Gerusalemme rimangono aperte per accogliere ragazzi stranieri iscritti ai corsi di ebraico e quelli del posto impegnati nello studio estivo. Non solo loro, però... Nell’aula 3021 della Facoltà di Scienze Sociali si è riunito un gruppo composto da studenti della Hebrew University e dell’Università di Betlemme. È un evento di rilievo, indice del fatto che, nonostante il muro che da anni divide il mondo israeliano da quello palestinese, esistono giovani che hanno il desiderio di incontrarsi e mettersi in gioco, superando ogni barriera fisica e mentale.
L’incontro, promosso da Interfaith Encounter Association, una realtà impegnata nel dialogo interculturale e interreligioso in Terra Santa, si è svolto nel cuore di una calda giornata mediorientale: tema, le “radici”. Dopo una breve introduzione preparata da due studenti e relativa ai punti salienti della storia dei due popoli, ebreo e palestinese, ogni partecipante è intervenuto raccontandosi attraverso le origini e il vissuto della propria famiglia. L’argomento si è rivelato capace di toccare le corde più intime dell’identità di ognuno: una ragazza ebrea, durante uno dei momenti emotivamente più culminanti, è prorotta in un pianto che lei stessa ha definito liberatorio; gli altri membri del gruppo hanno saputo accogliere quelle lacrime in un rispettoso, ma partecipato, silenzio. Il tempo di condivisione ha rappresentato così una preziosa opportunità per affacciarsi gli uni alla storia degli altri e per capire che in questo conflitto, anche se in modi molto diversi, tutti sono vittime.
Molti dei partecipanti seduti in cerchio sono iscritti a percorsi di studio inerenti il Medio Oriente e vogliono fare della loro futura professione una possibilità per contribuire alla costruzione di un processo di pace nella regione. Sono giovani preparati che sentono di avere una missione da portare avanti. Giovani che hanno le capacità per diventare forza trainante per altri. Noy, 28 anni, dopo aver viaggiato per conoscere il mondo ed impegnarsi in attività di volontariato, ha conseguito da poco la laurea di primo livello in Storia presso la Hebrew University ed è il coordinatore degli studenti di parte israeliana. Alla domanda sul perché abbia intrapreso questo percorso risponde: “Sono coinvolto in attività di dialogo interculturale dal 2007, da quando ho cominciato l’università. Ero stato in India come volontario per due periodi di sei mesi. Lì ho avuto una rivelazione: ho avvertito con forza che gli israeliani hanno una ferita profonda che segna la loro anima. Ho sentito, e sento tuttora, vividamente, che è il nostro stato di ansia correlato alla situazione con i palestinesi a provocare questa ferita. Il mio impegno nel dialogo, tramite la partecipazione attiva ai gruppi, significa dare una piccola mano al processo di guarigione di cui la mia gente ha bisogno”.
Ricorda poi un evento che ha segnato il suo percorso di consapevolezza: “La prima volta nella mia vita in cui ho incontrato un palestinese - si trattava di una giovane ragazza - fu in Scozia. Un mio amico ed io viaggiamo per cinque ore con lei e il suo ragazzo irlandese da un paesino che si trovava nel bel mezzo del nulla fino a Edimburgo. Sentivo che avevamo davvero tanto in comune in quell’ambiente. Eravamo così simili e il resto delle persone era, invece, così diverso da noi. Era veramente incredibile quanti aspetti ci accomunassero. E per scoprirlo abbiamo dovuto incontrarci lontano da casa. Così, non appena rientrato a Gerusalemme, dove semplicemente attraversando la strada si passa da un contesto culturale a un altro, ho sentito che doveva esserci un modo per mettersi in relazione con persone che sono così vicine a me e nel contempo così lontane”.
Noy ritiene che incontrare ragazzi che vivono “al di là del muro” gli permetta di destrutturare i pregiudizi che si erano annidati in lui per via dell’educazione ricevuta. Stereotipi che erano diventati causa di vere e proprie fobie. E per aiutarmi a capire che cosa intenda, mi riporta un fatto da lui vissuto qualche mese prima nel quartiere arabo della città vecchia di Gerusalemme: “Sei mesi fa abbiamo avuto un incontro interreligioso all’Ostello Austriaco. Era un ritiro di un fine settimana. Il primo giorno abbiamo parlato per sei ore di valori. Il confronto era stato davvero intimo e profondo. A conclusione di questa prima giornata, mentre mi avviavo a casa per andare a dormire, mi sentivo pieno di speranza e con un gran senso di sollievo. La mia moto era parcheggiata in una via vicina e buia della città vecchia di Gerusalemme. Mentre mi ci stavo avvicinando, tre palestinesi sono usciti da un ristorante completamente ubriachi e hanno cominciato a farmi domande sulla motocicletta. In qualsiasi altra circostanza mi sarei sentito fortemente sotto pressione e avrei pensato a come difendermi. Grazie allo stato di sollievo e speranza con cui ero uscito dall’incontro, invece, non li ho percepiti come nemici, ma semplicemente come persone interessate alla mia moto. Abbiamo parlato di motori per venti minuti, mescolando ebraico e inglese, e ci siamo salutati abbracciandoci! Me ne sono andato con un incredibile sentimento nel cuore. Ho pensato che lo stato emotivo con cui avevo approcciato la cosa avesse permesso di trasformare una situazione potenzialmente critica in un momento veramente piacevole. È per questo che per me è così importante entrare in dialogo”.
Nour, originario di un paesino vicino a Hebron, ha 22 anni ed è il coordinatore degli studenti dell’Università di Betlemme dove, a maggio, ha conseguito la laurea di primo livello in lingua e letteratura inglese. Parlando della situazione del paese in cui vive e del suo coinvolgimento personale nelle attività di dialogo, dice: “Siamo abituati, fin da giovani, a sentire le interviste dei leader israeliani e palestinesi. Noi volevamo avere un approccio che coinvolgesse la cittadinanza, aiutando le parti a parlarsi e a rompere il ghiaccio. Entrare in relazione con gli ebrei significa confrontarsi tra persone, arabi ed ebrei, che vivono qui da più di 2000 anni. Abbiamo deciso di percorrere la via del dialogo per poter vivere insieme in pace. Dialogando impari che il confronto avviene, innanzitutto, tra individui che condividono la stessa terra e la stessa cultura. Ho imparato che non tutti sono cattive persone e che non tutto quello che senti dire è vero. Certo, non trovi solo chi ti appoggia e incoraggia in questo cammino. Alcuni hanno una mentalità diversa, un’altra opinione rispetto a quello che stiamo facendo, ma noi proviamo comunque a fare qualcosa. Desideriamo avere delle buone relazioni con le persone, perché viviamo insieme non come palestinesi e israeliani, non come musulmani, cristiani ed ebrei, ma come esseri umani”.
Con i due coordinatori riflettiamo, poi, sul concetto di speranza. Nour ritiene che sia un sentimento insito nell’uomo che deve essere in grado di trasformarsi in azione concreta: “Di fatto abbiamo sempre una speranza. Ma non possiamo solo dire che vogliamo farla finita con tutti questi massacri che entrambe le parti subiscono. La speranza ci deve far lavorare fattivamente per una soluzione”. Noy mette in relazione la propria speranza per un processo di pace in questo paese con la fiducia e la conoscenza dell’altro. Riprende l’esempio dell’incontro notturno fatto nella città vecchia: “Vedere dei palestinesi ubriachi che si avvicinano a passo spedito in una strada buia avrebbe significato, nove su dieci, scappare o addirittura attaccarli per il solo pensiero che, se non lo avessi fatto io per primo, lo avrebbero fatto loro”. Diversamente: “Se qualsiasi ebreo mi corresse incontro, mi chiederei semplicemente perché lo stia facendo… se fosse poi una ragazza mi sentirei addirittura lusingato! Se mio padre lo facesse, gli correrei incontro anche io per abbracciarlo! Esistono diversi tipi di relazione, diversi livelli di fiducia con le persone. Le mie reazioni sono legate a quel particolare livello di fiducia che ho riguardo ad una particolare relazione. Se questo è vero per i singoli individui, lo è anche per i Paesi. I Paesi diventano quello che sono le persone che lo costituiscono”.
Prosegue, quindi, passando dall’esperienza personale agli avvenimenti della storia recente: “Se qualche palestinese lancia un razzo su Ashkelon, noi bruciamo Gaza. Non sono preparato sul tema della sicurezza - ammette - ma mi sembra che sia una reazione dettata dal panico. In un posto dove si è in grado di costruire un livello di fiducia più alto si può diventare tolleranti rispetto agli errori degli altri. Credo nella self-security. Abbiamo bisogno di sentirci sicuri per avere sicurezza. Se siamo pieni di ansie nessun muro ci potrà difendere. È una questione di come ci sentiamo. La speranza è l’unica arma che abbiamo contro il terrore, la frustrazione e l’oppressione. Perché altrimenti diventa unicamente una questione di auto-protezione. (I palestinesi) hanno cominciato a lanciare sassi e noi abbiamo risposto con le armi. Poi c’è stata la loro reazione con gli attacchi terroristici e poi un’ulteriore reazione da parte nostra”.
Le persone. Non solo palestinesi ed ebrei, ma Nour e Noy. Chiedo, dunque, che cosa significhi per loro essere palestinese ed essere ebreo. Nour mi guarda dritto negli occhi: “Prima di tutto sono orgoglioso di essere Palestinese. La parola Palestina significa “casa” e quindi non puoi sentirti a casa da nessun’altra parte se non a casa tua. Nonostante la situazione con gli ebrei sia difficile, nonostante il fatto che le persone soffrano e manchino loro tante cose, comunque essere Palestinese è bello. Hai la possibilità di conoscere tante persone, di essere coinvolto in tante occasioni di dialogo; diventi capace di giudicare molte situazioni in tutto il Medio Oriente. E credo che essere Palestinese, presentarti come Palestinese che desidera la pace, che lavora perché l’occupazione abbia termine, che vive in pace con tutte le diverse parti in Palestina, sia molto significativo”.
Noy si raccoglie in un lungo silenzio e poi risponde: “Beh… è una bella domanda! Ti devo dire che è proprio una bella domanda… non ho una risposta ben definita. Ogni giorno mi alzo e ci penso. Penso a che cosa sia l’ebraismo per me. Mi sento Ebreo, ma esprimere cosa significhi è più difficile. C’è un detto di uno dei nostri migliori rabbini che dice che se si dovesse sintetizzare l’intera Torah, l’intera Bibbia ebraica, in una frase, sarebbe “Ama il tuo vicino” e quindi credo che questo significhi essere Ebreo… almeno per oggi”.
Con loro anche gli altri partecipanti del gruppo si interrogano sulla propria identità e quella del proprio vicino. Dopo due ore e mezza di incontro e un ice coffee al bar, gli studenti si salutano. Sembra di intravedere sui loro volti l’espressione di quel sentimento di sollievo di cui poco prima Noy mi ha raccontato. Diventa importante ricordarsene quando, in questi giorni, si leggono i quotidiani locali e si fatica a immaginare la possibilità di una situazione migliore.
L’iniziativa non vuole essere unica nel suo genere: i giovani delle due università si riuniranno una volta al mese e si confronteranno su una serie di temi che permetteranno loro di conoscersi e di “mettersi nei panni dell’altro” con l’obiettivo di essere parte attiva, nel proprio piccolo, del cambiamento di prospettive di cui ha bisogno questa terra. Il prossimo appuntamento si terrà a Betlemme. È Ramadan e gli studenti palestinesi musulmani introdurranno i propri ospiti all’iftar, la cena serale che rompe il digiuno diurno del mese sacro per l’Islam.
È agosto, ma le porte della Hebrew University di Gerusalemme rimangono aperte per accogliere ragazzi stranieri iscritti ai corsi di ebraico e quelli del posto impegnati nello studio estivo. Non solo loro, però... Nell’aula 3021 della Facoltà di Scienze Sociali si è riunito un gruppo composto da studenti della Hebrew University e dell’Università di Betlemme. È un evento di rilievo, indice del fatto che, nonostante il muro che da anni divide il mondo israeliano da quello palestinese, esistono giovani che hanno il desiderio di incontrarsi e mettersi in gioco, superando ogni barriera fisica e mentale.
L’incontro, promosso da Interfaith Encounter Association, una realtà impegnata nel dialogo interculturale e interreligioso in Terra Santa, si è svolto nel cuore di una calda giornata mediorientale: tema, le “radici”. Dopo una breve introduzione preparata da due studenti e relativa ai punti salienti della storia dei due popoli, ebreo e palestinese, ogni partecipante è intervenuto raccontandosi attraverso le origini e il vissuto della propria famiglia. L’argomento si è rivelato capace di toccare le corde più intime dell’identità di ognuno: una ragazza ebrea, durante uno dei momenti emotivamente più culminanti, è prorotta in un pianto che lei stessa ha definito liberatorio; gli altri membri del gruppo hanno saputo accogliere quelle lacrime in un rispettoso, ma partecipato, silenzio. Il tempo di condivisione ha rappresentato così una preziosa opportunità per affacciarsi gli uni alla storia degli altri e per capire che in questo conflitto, anche se in modi molto diversi, tutti sono vittime.
Molti dei partecipanti seduti in cerchio sono iscritti a percorsi di studio inerenti il Medio Oriente e vogliono fare della loro futura professione una possibilità per contribuire alla costruzione di un processo di pace nella regione. Sono giovani preparati che sentono di avere una missione da portare avanti. Giovani che hanno le capacità per diventare forza trainante per altri. Noy, 28 anni, dopo aver viaggiato per conoscere il mondo ed impegnarsi in attività di volontariato, ha conseguito da poco la laurea di primo livello in Storia presso la Hebrew University ed è il coordinatore degli studenti di parte israeliana. Alla domanda sul perché abbia intrapreso questo percorso risponde: “Sono coinvolto in attività di dialogo interculturale dal 2007, da quando ho cominciato l’università. Ero stato in India come volontario per due periodi di sei mesi. Lì ho avuto una rivelazione: ho avvertito con forza che gli israeliani hanno una ferita profonda che segna la loro anima. Ho sentito, e sento tuttora, vividamente, che è il nostro stato di ansia correlato alla situazione con i palestinesi a provocare questa ferita. Il mio impegno nel dialogo, tramite la partecipazione attiva ai gruppi, significa dare una piccola mano al processo di guarigione di cui la mia gente ha bisogno”.
Ricorda poi un evento che ha segnato il suo percorso di consapevolezza: “La prima volta nella mia vita in cui ho incontrato un palestinese - si trattava di una giovane ragazza - fu in Scozia. Un mio amico ed io viaggiamo per cinque ore con lei e il suo ragazzo irlandese da un paesino che si trovava nel bel mezzo del nulla fino a Edimburgo. Sentivo che avevamo davvero tanto in comune in quell’ambiente. Eravamo così simili e il resto delle persone era, invece, così diverso da noi. Era veramente incredibile quanti aspetti ci accomunassero. E per scoprirlo abbiamo dovuto incontrarci lontano da casa. Così, non appena rientrato a Gerusalemme, dove semplicemente attraversando la strada si passa da un contesto culturale a un altro, ho sentito che doveva esserci un modo per mettersi in relazione con persone che sono così vicine a me e nel contempo così lontane”.
Noy ritiene che incontrare ragazzi che vivono “al di là del muro” gli permetta di destrutturare i pregiudizi che si erano annidati in lui per via dell’educazione ricevuta. Stereotipi che erano diventati causa di vere e proprie fobie. E per aiutarmi a capire che cosa intenda, mi riporta un fatto da lui vissuto qualche mese prima nel quartiere arabo della città vecchia di Gerusalemme: “Sei mesi fa abbiamo avuto un incontro interreligioso all’Ostello Austriaco. Era un ritiro di un fine settimana. Il primo giorno abbiamo parlato per sei ore di valori. Il confronto era stato davvero intimo e profondo. A conclusione di questa prima giornata, mentre mi avviavo a casa per andare a dormire, mi sentivo pieno di speranza e con un gran senso di sollievo. La mia moto era parcheggiata in una via vicina e buia della città vecchia di Gerusalemme. Mentre mi ci stavo avvicinando, tre palestinesi sono usciti da un ristorante completamente ubriachi e hanno cominciato a farmi domande sulla motocicletta. In qualsiasi altra circostanza mi sarei sentito fortemente sotto pressione e avrei pensato a come difendermi. Grazie allo stato di sollievo e speranza con cui ero uscito dall’incontro, invece, non li ho percepiti come nemici, ma semplicemente come persone interessate alla mia moto. Abbiamo parlato di motori per venti minuti, mescolando ebraico e inglese, e ci siamo salutati abbracciandoci! Me ne sono andato con un incredibile sentimento nel cuore. Ho pensato che lo stato emotivo con cui avevo approcciato la cosa avesse permesso di trasformare una situazione potenzialmente critica in un momento veramente piacevole. È per questo che per me è così importante entrare in dialogo”.
Nour, originario di un paesino vicino a Hebron, ha 22 anni ed è il coordinatore degli studenti dell’Università di Betlemme dove, a maggio, ha conseguito la laurea di primo livello in lingua e letteratura inglese. Parlando della situazione del paese in cui vive e del suo coinvolgimento personale nelle attività di dialogo, dice: “Siamo abituati, fin da giovani, a sentire le interviste dei leader israeliani e palestinesi. Noi volevamo avere un approccio che coinvolgesse la cittadinanza, aiutando le parti a parlarsi e a rompere il ghiaccio. Entrare in relazione con gli ebrei significa confrontarsi tra persone, arabi ed ebrei, che vivono qui da più di 2000 anni. Abbiamo deciso di percorrere la via del dialogo per poter vivere insieme in pace. Dialogando impari che il confronto avviene, innanzitutto, tra individui che condividono la stessa terra e la stessa cultura. Ho imparato che non tutti sono cattive persone e che non tutto quello che senti dire è vero. Certo, non trovi solo chi ti appoggia e incoraggia in questo cammino. Alcuni hanno una mentalità diversa, un’altra opinione rispetto a quello che stiamo facendo, ma noi proviamo comunque a fare qualcosa. Desideriamo avere delle buone relazioni con le persone, perché viviamo insieme non come palestinesi e israeliani, non come musulmani, cristiani ed ebrei, ma come esseri umani”.
Con i due coordinatori riflettiamo, poi, sul concetto di speranza. Nour ritiene che sia un sentimento insito nell’uomo che deve essere in grado di trasformarsi in azione concreta: “Di fatto abbiamo sempre una speranza. Ma non possiamo solo dire che vogliamo farla finita con tutti questi massacri che entrambe le parti subiscono. La speranza ci deve far lavorare fattivamente per una soluzione”. Noy mette in relazione la propria speranza per un processo di pace in questo paese con la fiducia e la conoscenza dell’altro. Riprende l’esempio dell’incontro notturno fatto nella città vecchia: “Vedere dei palestinesi ubriachi che si avvicinano a passo spedito in una strada buia avrebbe significato, nove su dieci, scappare o addirittura attaccarli per il solo pensiero che, se non lo avessi fatto io per primo, lo avrebbero fatto loro”. Diversamente: “Se qualsiasi ebreo mi corresse incontro, mi chiederei semplicemente perché lo stia facendo… se fosse poi una ragazza mi sentirei addirittura lusingato! Se mio padre lo facesse, gli correrei incontro anche io per abbracciarlo! Esistono diversi tipi di relazione, diversi livelli di fiducia con le persone. Le mie reazioni sono legate a quel particolare livello di fiducia che ho riguardo ad una particolare relazione. Se questo è vero per i singoli individui, lo è anche per i Paesi. I Paesi diventano quello che sono le persone che lo costituiscono”.
Prosegue, quindi, passando dall’esperienza personale agli avvenimenti della storia recente: “Se qualche palestinese lancia un razzo su Ashkelon, noi bruciamo Gaza. Non sono preparato sul tema della sicurezza - ammette - ma mi sembra che sia una reazione dettata dal panico. In un posto dove si è in grado di costruire un livello di fiducia più alto si può diventare tolleranti rispetto agli errori degli altri. Credo nella self-security. Abbiamo bisogno di sentirci sicuri per avere sicurezza. Se siamo pieni di ansie nessun muro ci potrà difendere. È una questione di come ci sentiamo. La speranza è l’unica arma che abbiamo contro il terrore, la frustrazione e l’oppressione. Perché altrimenti diventa unicamente una questione di auto-protezione. (I palestinesi) hanno cominciato a lanciare sassi e noi abbiamo risposto con le armi. Poi c’è stata la loro reazione con gli attacchi terroristici e poi un’ulteriore reazione da parte nostra”.
Le persone. Non solo palestinesi ed ebrei, ma Nour e Noy. Chiedo, dunque, che cosa significhi per loro essere palestinese ed essere ebreo. Nour mi guarda dritto negli occhi: “Prima di tutto sono orgoglioso di essere Palestinese. La parola Palestina significa “casa” e quindi non puoi sentirti a casa da nessun’altra parte se non a casa tua. Nonostante la situazione con gli ebrei sia difficile, nonostante il fatto che le persone soffrano e manchino loro tante cose, comunque essere Palestinese è bello. Hai la possibilità di conoscere tante persone, di essere coinvolto in tante occasioni di dialogo; diventi capace di giudicare molte situazioni in tutto il Medio Oriente. E credo che essere Palestinese, presentarti come Palestinese che desidera la pace, che lavora perché l’occupazione abbia termine, che vive in pace con tutte le diverse parti in Palestina, sia molto significativo”.
Noy si raccoglie in un lungo silenzio e poi risponde: “Beh… è una bella domanda! Ti devo dire che è proprio una bella domanda… non ho una risposta ben definita. Ogni giorno mi alzo e ci penso. Penso a che cosa sia l’ebraismo per me. Mi sento Ebreo, ma esprimere cosa significhi è più difficile. C’è un detto di uno dei nostri migliori rabbini che dice che se si dovesse sintetizzare l’intera Torah, l’intera Bibbia ebraica, in una frase, sarebbe “Ama il tuo vicino” e quindi credo che questo significhi essere Ebreo… almeno per oggi”.
Con loro anche gli altri partecipanti del gruppo si interrogano sulla propria identità e quella del proprio vicino. Dopo due ore e mezza di incontro e un ice coffee al bar, gli studenti si salutano. Sembra di intravedere sui loro volti l’espressione di quel sentimento di sollievo di cui poco prima Noy mi ha raccontato. Diventa importante ricordarsene quando, in questi giorni, si leggono i quotidiani locali e si fatica a immaginare la possibilità di una situazione migliore.
L’iniziativa non vuole essere unica nel suo genere: i giovani delle due università si riuniranno una volta al mese e si confronteranno su una serie di temi che permetteranno loro di conoscersi e di “mettersi nei panni dell’altro” con l’obiettivo di essere parte attiva, nel proprio piccolo, del cambiamento di prospettive di cui ha bisogno questa terra. Il prossimo appuntamento si terrà a Betlemme. È Ramadan e gli studenti palestinesi musulmani introdurranno i propri ospiti all’iftar, la cena serale che rompe il digiuno diurno del mese sacro per l’Islam.
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