domenica, agosto 29, 2010
Intervista alla regista palestinese Sahera Dirbas, che racconta le vite profughe del suo popolo

PeaceReporter - Sahera Dirbas ha due grandi occhi marroni velati di amarezza, anche quando sul suo volto compare un sorriso. Un volto che rispecchia un po' i film di questa cineasta palestinese, nata a Haifa nel 1964, ma residente a Gerusalemme. Una laurea in ingegneria chimica, ma che nella vita ha preferito dedicarsi al cinema perché "volevo trasmettere la storia profonda, intima, della mia terra e della mia gente", racconta. La sua passione è il recupero della storia dei villaggi palestinesi distrutti nel 1948, è il dare voce a protagonisti di una diaspora che stanno via via spegnendosi o ''abituandosi alla situazione di occupazione, vissuta quasi come normalità, mentre di normale non ha nulla''. Mostrare al mondo la vita quotidiana, in libertà, senza dover rendere conto ai produttori di turno: questo è uno degli altri punti cardine della poetica politica di Sahera che dà vita a documentari indipendenti, anche perché ''a forza di dover dare conto agli sponsor molti registi palestinesi hanno sviluppato una censura preventiva, una auto mutilazione della propria espressività e della loro creatività''.

Il suo primo lavoro di successo è il documentario del 2007 Stranger in my home, 37 minuti che raccontano la storia di otto famiglie palestinesi che si sono trovate nella situazione di essere rifugiati nella loro stessa terra. Richiamano gli eventi della Naqba, la tragedia, come i palestinesi chiamano la fondazione dello stato di Israele, e quelli del 1967, come la distruzione della porta del Mughrabi, che gli israeliani hanno raso al suolo all'indomani della Guerra dei Sei Giorni per ampliare il Muro del Pianto, a Gerusalemme. Ogni famiglia ripresa nel documentario si reca a Gerusalemme ovest in quella che fu la casa di origine, con i dolori e i ricordi che incoraggiano o fermano la visita, sommati alla paura dell'incontro con l'altro, cioè gli occupanti, nuovi padroni del luogo natale. Stranger in my home ha partecipato all'Amal festival in Spagna nell'ottobre 2009 dove ha vinto la nomination per il miglior corto.

Del 2008 è Una manciata di terra, che narra la storia di famiglie palestinesi del villaggio di Tiret Haifa -oggi Tiret al Karmel - fuggite o cacciate via dalla loro terra nel 1948 e da allora sparse tra Cisgiordania, Siria e Giordania. "E' quello che preferisco perché mi tocca nell'intimo, e poi perché è quello che entra più nel profondo delle relazioni tra palestinesi", ammette Sahera. Oltre ad aver partecipato al Al-Jazeera International Documentary Film Festival in Qatar questo documentario è stato tradotto subito in inglese e italiano e a breve avrà una versione anche in spagnolo.

Imminente è anche la presenza dei lavori della cineasta ad un festival in Russia, con 2 short films: 138 pound in my poket, nominato per un premio di Al-Jaazera International Film Festival 2010. E' la biografia narrata in 20 minuti di Hindi Husseini, una giovane insegnante che nell'aprile del 1948 si imbatte in un gruppo di bambini sopravvissuti al massacro di Deir Yassin e li adotta. Crea così un orfanotrofio nella sua casa di Gerusalemme, che il più grande orfanotrofio che accoglie e educa oltre 1500 bambini.

Il secondo corto, di 14 minuti, si intitola Crystal Grapes, on the road to a better living e mostra l'agire dell'organizzazione di donne Arab ortodox society, nella città vecchia di Gerusalemme, che è stata tra le prime organizzazioni arabe a prendersi cura dei bisogni delle famiglie. Oggi si occupa di formazione per le donne e supporto alle famiglie.

Infine la prossima uscita importante, dal titolo italiano La sposa di Gerusalemme: un docudrama di 80 minuti, sempre di produzione indipendente. "Ho deciso di concentrarmi su Gerusalemme perché ci vivo, tanti ne parlano ma senza darne il senso della vita quotidiana, quella che si svolge in città vecchia e sotto occupazione" spiega la regista, che, alla storia d'amore, inframmezza i problemi derivanti dall'occupazione ma anche dalla droga, "una realtà molto presente di cui però nessuno parla".

La protagonista è una operatrice sociale, che visita i suoi assistiti casa per casa, cosa che permette di mostrare la situazione delle famiglie nella città vecchia, sia cristiane sia musulmane: sullo schermo scorrono realtà di dieci persone in una stanza, o di chi ha la casa in demolizione.

A che questa è la old city. La donna conosce poi un ragazzo con problemi di droga, si innamorano, vorrebbero sposarsi ma le famiglie non sono d'accordo. Durante la negoziazione familiare, portata avanti dai parenti, emergono ancora una volta i temi della vita quotidiana influenzata dall'occupazione: frequente è il problema sul dove andare a vivere una volta sposati, se da un lato o dall'altro del muro. Un film quindi che mostra come muro e occupazione entrano nella vita di tutti, senza tuttavia che la gente se ne renda più conto, poiché sono ormai percepiti come situazioni normali, ''che però non sono tali'', insiste Sahera. Che promette: ''Alla première voglio proprio dire questo, sottolinearlo con forza: non ci si deve abituare alle abnormità e alle ingiustizie''.

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