La nostra corrispondente a Gerusalemme Raffaela Corrias ha incontrato per La Perfetta Letizia Emile Moatti, delegato della Fraternità di Abramo, pioniere del dialogo interreligioso trasferitosi a Gerusalemme con il desiderio di aiutare la città a compiere la sua missione universale: la riconciliazione tra le Nazioni. Di seguito la prima parte dell’intervista (Clicca qui per la seconda parte).
R - Sono nato in una famiglia ebrea di una piccola città di 15.000 abitanti in Algeria. Era un luogo di grande spiritualità, considerato un’oasi per la sua acqua e per il suo verde. La peculiarità di questa cittadina era il fatto di essere abitata da quelli che si definiscono credenti abramitici. La cultura abramitica, intesa come conoscenza della figura di Abramo, faceva da collante tra ebrei, cristiani e musulmani. Ho avuto un’infanzia meravigliosa in cui ho sperimentato i valori dell’amicizia e della convivenza pacifica con le altre comunità. Gli anni in Algeria hanno rappresentato un modello di quello che avrei poi cercato nella vita: persone capaci di entrare in comunicazione le une con le altre con spontaneità e con il cuore. Nel 1949 mi sono trasferito in Francia dove sono stato ammesso a l’École Polytechnique di Parigi. Ai tempi non ero un ebreo praticante, ma avevo sempre mantenuto una sorta di cordone ombelicale con la comunità. Durante le feste, per esempio, condividevo il mio tempo con altri ebrei.
D - E cosa l’ha spinta a rinsaldare ulteriormente quel cordone ombelicale tanto da partire per Israele?
R - Finiti gli studi ho intrapreso un cammino di ritorno alle mie radici. Lo stesso percorso dello scrittore Andre Chouraqui che ispirò me e molti altri. Chouraqui, infatti, visse un allontanamento dalla religione ebraica. Fu la nostalgia per l’ambiente conosciuto in gioventù a riavvicinarlo alla propria tradizione. E’ stato l’unico scrittore nel mondo ad aver tradotto i libri sacri dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam nella stessa lingua, il francese. Ed è stato proprio il suo essere scrittore che gli ha permesso di tornare all’Ebraismo.
Sono quindi partito per lavorare quindici mesi in URSS. Si viveva in un clima di spionaggio. La propaganda ripeteva dalla mattina alla sera che l’Occidente voleva la guerra con il mondo comunista. Ho lavorato in un ambiente decisamente poco accogliente. Tutto questo mi ha molto influenzato e interrogato.
Rientrando in Francia in nave ho incontrato dei cristiani che erano stati in Israele. Mi ricordo che ero stato colpito dalla comparazione che avevano fatto tra il kibbutz israeliano e il kolkoz sovietico. Così l’estate seguente, con mia moglie, abbiamo passato un mese in Israele girandolo in lungo e in largo. In quell’occasione ho sperimentato il profondo contrasto tra un paese come l’Unione Sovietica, dove non si poteva quasi parlare, e un paese come Israele, dove tutti avevano voglia di raccontare la propria vita e suggerire come ricostruire il mondo. Parlavamo con le persone da mattina a sera inoltrata. Questo viaggio mi ha ricordato la promessa che mi ero fatto: riprendere in mano le mie radici ebraiche.
Nel 1964 partii nuovamente per Gerusalemme dove mi fermai per qualche mese. Volevo imparare l’ebraico, approfondire ulteriormente la mia tradizione religiosa, riflettere e capire se l’Israele che avevo conosciuto attraverso i testi sacri potesse essere l’Israele che stava rinascendo. In realtà era un paese socialista non molto interessato alla religione. Incontrai, comunque, dei veri credenti che fecero nascere in me una reale speranza. La speranza della riconciliazione di tutte le Nazioni. L’anelito di ogni vera religione.
Con questa speranza, tornato in Francia, continuai il mio percorso di approfondimento e mi impegnai nella mia sinagoga. Il mio cammino era quindi segnato: mi coinvolsi prudentemente, perché non era ben visto, nel dialogo interreligioso. Credevo che fosse davvero quello che bisognava fare.
D - Per quale motivo ha poi deciso di venire a vivere a Gerusalemme?
R - Pensai che se Dio desiderava che tornassi all’Ebraismo fosse necessario che tornassi anche in Israele. Avevo il desiderio di partecipare alla sua rinascita in loco. Il Paese stava vivendo una vera e propria resurrezione. Era quindi logico che facessi questa esperienza di venire a vivere qui. Feci, come si dice, “aliyah”. Sarei dovuto venire nel 1967, ma per via della Guerra dei Sei Giorni rimandai. Intanto in Francia cresceva il numero delle persone che ritornavano all’Ebraismo e cresceva il numero dei candidati che volevano tornare in Israele per viverci. Tornai, quindi, con un gruppo di universitari nel 1968. Fummo i primi di un’immigrazione che per la prima volta non era dettata dalla fuga per via delle persecuzioni, ma che avveniva per scelta. La scelta di persone che erano ritornate alla religione, alla tradizione. Venni in Israele non certo perché non amavo la Francia, ma perché rappresenta una speranza per l’umanità. Se faremo rivivere la spiritualità a Gerusalemme, la pace si espanderà nel mondo intero.
D - Perché crede nel ruolo di Gerusalemme per il mondo intero?
R - Prima di tutto perché è scritto nei testi sacri di tutte le nostre tradizioni, ebraica, cristiana e musulmana; poi perché lo sento fortemente: quando ho dei contatti con degli ebrei praticanti, dei cristiani praticanti o dei musulmani praticanti, con veri uomini di fede intendo, parliamo la stessa lingua e speriamo nella stessa nuova rivelazione di una civiltà di fraternità. La civiltà abramitica è la civiltà della fraternità universale. Cosa ci ha insegnato Abramo? Che ogni essere vivente, ogni persona, uomo o donna, è considerato come un fratello o una sorella e va accolto con ospitalità. Tutto è scritto lì dentro. Che sia Ebraismo, Cristianesimo o Islam, non ha alcuna importanza. Per me la cultura ebraica porta in sé un potenziale di sviluppo di un mondo di fraternità dove non ci sarà più la guerra. È una speranza messianica che qui a Gerusalemme è inscritta nella vita quotidiana, che qui si può intuire. È quindi normale che mi impegni con così tanto entusiasmo in questa avventura.
D - Guardando Gerusalemme non è sempre facile sperare nella fraternità e nella pace ..
R - La politica è senz’altro divisa. Bisogna essere consapevoli che la politica senza la religione porta in sé la divisione. Tuttavia ogni persona che ha una vera fede non può che impegnarsi nel dialogo e a favore della fraternità. Queste persone di fede esistono, le frequento! Avverto questa speranza per la pace universale tra persone di fede ebraica, cristiana e musulmana.
Oggi la religione è poco conosciuta. Le religioni hanno deviato dai loro obiettivi e spesso sono divenute causa di guerra. Quando ci si pensa è terribile. Se le religioni diventano causa di guerre si trasformano nel contrario di quello che dovrebbero essere. Siamo in un periodo di transizione. Ciascun popolo ha cercato la sua via, ma senza un reale contatto con gli altri. I musulmani hanno una “sura” che dice che Dio avrebbe potuto creare un’unica comunità, ma che ha voluto creare molti popoli in modo che gli uomini possano discutere tra di loro sulla verità per riscoprire i valori della religione. E credo che tutto questo sia molto vero: se guardo oggi la realtà mi ritrovo davanti a un mondo che sta uscendo da una cultura dove ogni nazione e ogni religione sono ripiegate su loro stesse per entrare in una cultura dove ci si comincia ad aprire agli altri. E’ proprio un inizio, ma questo è il cammino, siamo nella direzione giusta.
È difficile giudicare l’attuale conflitto in questa terra perché è necessario distinguere tra i vari livelli della situazione. È certamente importante lavorare su una speranza comune partendo dalle tradizioni abramitiche. Se la pace arriverà qui, se la vera religione di amore e giustizia qui si rivelerà, possiamo essere sicuri che il giorno dopo tutto il mondo ne sarà al corrente! Sarà un risveglio. Andiamo verso una pentecoste, una nuova pentecoste: in tutte le nazioni le persone di buona volontà scopriranno nel loro cuore valori veri che vengono da Dio e si comprenderanno anche se non parlano la stessa lingua.
D - Come è possibile che questo cambiamento interiore, questa riscoperta di Dio, possa mettersi in relazione con la politica?
R - È necessario che la politica si agganci alla religione, ma non è certamente facile perché rappresenta degli interessi particolari o di gruppo. Gli interessi degli uni vanno a discapito degli interessi degli altri. La politica per natura è conflittuale mentre la religione, per natura, cerca l’unità. Dio è uno, l’unità è una.
Tutto si muove sul livello interiore di ogni individuo. Bisogna comunque fare politica perché la politica è l’organizzazione della vita sociale, ma bisognerebbe farla in riferimento, quando possibile, alla religione. Questo possono farlo solo i credenti. Bisogna convertire il mondo alla religione dell’unico Dio per l’umanità intera. Ogni religione sa convertire le persone, ma normalmente non nella buona direzione: voglio convertire l’altro a quello che sono io. Bisogna invece convertire l’altro a ritrovare Dio dentro di sé. È l’esempio migliore è Abramo. Sono un grande conoscitore di Abramo. È una figura che ho studiato e su cui ho riflettuto per quarant’anni. Secondo me non c’è niente da aggiungere: quando si comprende l’ideale di Abramo significa che si è compreso il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam. Anziché deviare nell’opposizione all’altro, bisogna camminare verso Dio e ritrovare l’unità dell’umanità in Dio, grazie a Dio.
D - E cosa l’ha spinta a rinsaldare ulteriormente quel cordone ombelicale tanto da partire per Israele?
R - Finiti gli studi ho intrapreso un cammino di ritorno alle mie radici. Lo stesso percorso dello scrittore Andre Chouraqui che ispirò me e molti altri. Chouraqui, infatti, visse un allontanamento dalla religione ebraica. Fu la nostalgia per l’ambiente conosciuto in gioventù a riavvicinarlo alla propria tradizione. E’ stato l’unico scrittore nel mondo ad aver tradotto i libri sacri dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam nella stessa lingua, il francese. Ed è stato proprio il suo essere scrittore che gli ha permesso di tornare all’Ebraismo.
Sono quindi partito per lavorare quindici mesi in URSS. Si viveva in un clima di spionaggio. La propaganda ripeteva dalla mattina alla sera che l’Occidente voleva la guerra con il mondo comunista. Ho lavorato in un ambiente decisamente poco accogliente. Tutto questo mi ha molto influenzato e interrogato.
Rientrando in Francia in nave ho incontrato dei cristiani che erano stati in Israele. Mi ricordo che ero stato colpito dalla comparazione che avevano fatto tra il kibbutz israeliano e il kolkoz sovietico. Così l’estate seguente, con mia moglie, abbiamo passato un mese in Israele girandolo in lungo e in largo. In quell’occasione ho sperimentato il profondo contrasto tra un paese come l’Unione Sovietica, dove non si poteva quasi parlare, e un paese come Israele, dove tutti avevano voglia di raccontare la propria vita e suggerire come ricostruire il mondo. Parlavamo con le persone da mattina a sera inoltrata. Questo viaggio mi ha ricordato la promessa che mi ero fatto: riprendere in mano le mie radici ebraiche.
Nel 1964 partii nuovamente per Gerusalemme dove mi fermai per qualche mese. Volevo imparare l’ebraico, approfondire ulteriormente la mia tradizione religiosa, riflettere e capire se l’Israele che avevo conosciuto attraverso i testi sacri potesse essere l’Israele che stava rinascendo. In realtà era un paese socialista non molto interessato alla religione. Incontrai, comunque, dei veri credenti che fecero nascere in me una reale speranza. La speranza della riconciliazione di tutte le Nazioni. L’anelito di ogni vera religione.
Con questa speranza, tornato in Francia, continuai il mio percorso di approfondimento e mi impegnai nella mia sinagoga. Il mio cammino era quindi segnato: mi coinvolsi prudentemente, perché non era ben visto, nel dialogo interreligioso. Credevo che fosse davvero quello che bisognava fare.
D - Per quale motivo ha poi deciso di venire a vivere a Gerusalemme?
R - Pensai che se Dio desiderava che tornassi all’Ebraismo fosse necessario che tornassi anche in Israele. Avevo il desiderio di partecipare alla sua rinascita in loco. Il Paese stava vivendo una vera e propria resurrezione. Era quindi logico che facessi questa esperienza di venire a vivere qui. Feci, come si dice, “aliyah”. Sarei dovuto venire nel 1967, ma per via della Guerra dei Sei Giorni rimandai. Intanto in Francia cresceva il numero delle persone che ritornavano all’Ebraismo e cresceva il numero dei candidati che volevano tornare in Israele per viverci. Tornai, quindi, con un gruppo di universitari nel 1968. Fummo i primi di un’immigrazione che per la prima volta non era dettata dalla fuga per via delle persecuzioni, ma che avveniva per scelta. La scelta di persone che erano ritornate alla religione, alla tradizione. Venni in Israele non certo perché non amavo la Francia, ma perché rappresenta una speranza per l’umanità. Se faremo rivivere la spiritualità a Gerusalemme, la pace si espanderà nel mondo intero.
D - Perché crede nel ruolo di Gerusalemme per il mondo intero?
R - Prima di tutto perché è scritto nei testi sacri di tutte le nostre tradizioni, ebraica, cristiana e musulmana; poi perché lo sento fortemente: quando ho dei contatti con degli ebrei praticanti, dei cristiani praticanti o dei musulmani praticanti, con veri uomini di fede intendo, parliamo la stessa lingua e speriamo nella stessa nuova rivelazione di una civiltà di fraternità. La civiltà abramitica è la civiltà della fraternità universale. Cosa ci ha insegnato Abramo? Che ogni essere vivente, ogni persona, uomo o donna, è considerato come un fratello o una sorella e va accolto con ospitalità. Tutto è scritto lì dentro. Che sia Ebraismo, Cristianesimo o Islam, non ha alcuna importanza. Per me la cultura ebraica porta in sé un potenziale di sviluppo di un mondo di fraternità dove non ci sarà più la guerra. È una speranza messianica che qui a Gerusalemme è inscritta nella vita quotidiana, che qui si può intuire. È quindi normale che mi impegni con così tanto entusiasmo in questa avventura.
D - Guardando Gerusalemme non è sempre facile sperare nella fraternità e nella pace ..
R - La politica è senz’altro divisa. Bisogna essere consapevoli che la politica senza la religione porta in sé la divisione. Tuttavia ogni persona che ha una vera fede non può che impegnarsi nel dialogo e a favore della fraternità. Queste persone di fede esistono, le frequento! Avverto questa speranza per la pace universale tra persone di fede ebraica, cristiana e musulmana.
Oggi la religione è poco conosciuta. Le religioni hanno deviato dai loro obiettivi e spesso sono divenute causa di guerra. Quando ci si pensa è terribile. Se le religioni diventano causa di guerre si trasformano nel contrario di quello che dovrebbero essere. Siamo in un periodo di transizione. Ciascun popolo ha cercato la sua via, ma senza un reale contatto con gli altri. I musulmani hanno una “sura” che dice che Dio avrebbe potuto creare un’unica comunità, ma che ha voluto creare molti popoli in modo che gli uomini possano discutere tra di loro sulla verità per riscoprire i valori della religione. E credo che tutto questo sia molto vero: se guardo oggi la realtà mi ritrovo davanti a un mondo che sta uscendo da una cultura dove ogni nazione e ogni religione sono ripiegate su loro stesse per entrare in una cultura dove ci si comincia ad aprire agli altri. E’ proprio un inizio, ma questo è il cammino, siamo nella direzione giusta.
È difficile giudicare l’attuale conflitto in questa terra perché è necessario distinguere tra i vari livelli della situazione. È certamente importante lavorare su una speranza comune partendo dalle tradizioni abramitiche. Se la pace arriverà qui, se la vera religione di amore e giustizia qui si rivelerà, possiamo essere sicuri che il giorno dopo tutto il mondo ne sarà al corrente! Sarà un risveglio. Andiamo verso una pentecoste, una nuova pentecoste: in tutte le nazioni le persone di buona volontà scopriranno nel loro cuore valori veri che vengono da Dio e si comprenderanno anche se non parlano la stessa lingua.
D - Come è possibile che questo cambiamento interiore, questa riscoperta di Dio, possa mettersi in relazione con la politica?
R - È necessario che la politica si agganci alla religione, ma non è certamente facile perché rappresenta degli interessi particolari o di gruppo. Gli interessi degli uni vanno a discapito degli interessi degli altri. La politica per natura è conflittuale mentre la religione, per natura, cerca l’unità. Dio è uno, l’unità è una.
Tutto si muove sul livello interiore di ogni individuo. Bisogna comunque fare politica perché la politica è l’organizzazione della vita sociale, ma bisognerebbe farla in riferimento, quando possibile, alla religione. Questo possono farlo solo i credenti. Bisogna convertire il mondo alla religione dell’unico Dio per l’umanità intera. Ogni religione sa convertire le persone, ma normalmente non nella buona direzione: voglio convertire l’altro a quello che sono io. Bisogna invece convertire l’altro a ritrovare Dio dentro di sé. È l’esempio migliore è Abramo. Sono un grande conoscitore di Abramo. È una figura che ho studiato e su cui ho riflettuto per quarant’anni. Secondo me non c’è niente da aggiungere: quando si comprende l’ideale di Abramo significa che si è compreso il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islam. Anziché deviare nell’opposizione all’altro, bisogna camminare verso Dio e ritrovare l’unità dell’umanità in Dio, grazie a Dio.
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