del nostro redattore Carlo Mafera
E’ un tema a me particolarmente caro, questo della debolezza, che ho cercato di sviluppare nei dialoghi intessuti con gli amici. Questa volta cerco di raccogliere per iscritto qualche idea tratta dai grandi pensatori contemporanei. Ne ho scelto due: lo psichiatra Vittorino Andreoli e il teologo Andrè Louf. Infatti, ultimamente ho scoperto che le due scienze, psicologia e teologia, si sposano felicemente, e per esempio Anselm Grun è un ottimo rappresentante di questo connubio. Aveva proprio ragione il grande Papa Giovanni Paolo II quando scrisse l’enciclica Fides et Ratio: la parola di Dio e quella dell’uomo devono completarsi a vicenda e questo è un campo dove c’è la più completa esemplificazione.
Inizierei con Andreoli, che nel suo libro “L’uomo di vetro” (Rizzoli 2008) esprime icasticamente l’elogio della debolezza: il sottotitolo, “La forza della fragilità”, è tutto un programma. Egli afferma che nella nostra epoca abbiamo appreso come nascondere le nostre paure o a vergognarci persino di piangere, perché tali sentimenti sono ritenuti una debolezza. Andreoli, in un’intervista rilasciata a Lucia Bellaspiga su Avvenire del 25/01/2008, dice: “La realtà è opposta; solo l’uomo fragile prova l’amore, l’amicizia, la solidarietà, perché ha bisogno dell’altro e lo ammette. Il potente crede di bastare a se stesso e così non sa amare: l’uomo (la donna) di ferro è freddo, evita il confronto e se si lega all’altro è per sottometterlo. Non c’è nulla di più simile alla fragilità dell’amore: quando ami non sei più capace di vivere senza l’amato, lo invochi e ti senti incompleto. I due si cercano ed è bellissima l’idea che l’amore sia lo scambio di due fragilità”. La fragilità viene quindi ritenuta da Vittorino Andreoli la somma delle virtù.
Il suo essere fragile come il vetro lo avvicina a Dio, che ha dimostrato nella Sua incarnazione una fragilità divina che lo assimila specularmente all’uomo. Egli afferma ancora che “quello che prego è un dio della fragilità, un dio ‘minore’ che sappia amare e capire, un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato”. Sembra l’identikit di Gesù. E in effetti nell’intervista Andreoli conclude: “E’ certo Lui l’immagine che più si avvicina alla mia fragilità: ha pianto, ha rimproverato Dio che è nei cieli, ha sofferto in croce, è stato insultato, ha agito nell’impotenza, è stato lasciato solo a sudare sangue nel Getsemani. È lui il mio Dio, ma l’incontro non è ancora avvenuto…”
E veniamo al pensiero di Andrè Louf. Il grande teologo nel suo libro “La vita spirituale” (Magnano 2001, p.138) afferma: “Numerosi e svariati sono i campi in cui questa debolezza può manifestarsi in me, ma il fatto è che essa si manifesta sempre – ed è la tattica della santa astuzia di Dio – là dove sono più vulnerabile, nel mio punto debole, dove sono totalmente sguarnito, al limite estremo e quasi mortale della mia debolezza, dove non resta più che una sola speranza: quella di abbassare finalmente le armi e di capitolare davanti a Dio, cioè di presentarmi, di abbandonarmi alla sua misericordia, accettando di cedere il testimone alla grazia nel luogo e nel momento preciso in cui ero sul punto di sprofondare.”
In questa frase c’è tutto il fulcro del pensiero di Andrè Louf che ha ribadito questi principi nel celebre libro “Beata debolezza” (Edizioni Il Messaggero di Sant’Antonio 2003). In tale libro sono contenute le omelie tenutesi nell'abbazia cistercense di Mont-des-Cats, dove ogni domenica la comunità dei monaci celebra la liturgia eucaristica insieme con un gruppo di laici. Nell’approfondimento paziente dei segreti del Vangelo, una domenica dopo l'altra, si scopre alla fine che tutti, sia i monaci che i laici, devono prendere consapevolezza di una verità fondamentale: accettare la propria debolezza e povertà, per essere colmati di gioia e pace nel Signore. Solo chi, con grande umiltà, si arrende senza condizioni nelle mani di Dio sperimenta la tenerezza e la potenza dell'amore divino.
Il titolo delle riflessioni (Optanda Infirmitas) si ispira ad una folgorante intuizione (che Louf fa propria) di San Bernardo e anche di S.Teresa del Bambino Gesù, i quali proclamano beata e desiderabile la debolezza che spoglia l'uomo dalle pretese del proprio io e lo apre a ricevere la forza del Signore onnipotente.
A questo punto anche la preghiera si trasforma. Non è più una tecnica o una formula ma un vero e proprio incontro in cui la Parola risveglia lo Spirito che abita nel cuore del devoto. È soprattutto il luogo in cui l’uomo, esaurito ogni proprio sforzo, smette di pregare e si abbandona nell’attesa di Qualcuno, ricevendo a quel punto la preghiera come grazia.
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