venerdì, settembre 24, 2010
del nostro redattore a Londra Renato Zilio

“Ma la gente sa quando te ne andrai?” lancio, così, simpaticamente a bruciapelo. “Oh no! - mi fa lui immediatamente - non deve assolutamente saperlo!” Capisco subito di aver toccato un tasto delicato; il mistero è di prassi. Sto scambiando qualche parola amichevole con un parroco di campagna, discorrendo della sua vasta parrocchia, del suo lungo tempo di permanenza... Automaticamente mi corre in mente quanto avviene nella nostra diocesi, all’estero. Quando un parroco è designato per una nuova parrocchia tutti sono coscienti del suo mandato come una vera missione ad tempus. Un servizio pastorale che dura più o meno sei anni. A volte, per un concerto di circostanze si allunga a nove, al massimo... Sì, il cambio è considerato come un vero rinnovamento, benefico a tutti.

È un rinascere, una nuova partenza sia per la comunità che per il suo leader. Occasione di arricchimento reciproco.“Dopo cinque-sei anni quello che hai dato hai dato e quello che non hai dato non hai dato” osserva qualcuno, salomonicamente. In una parrocchia veneta, recentemente, sentivo una catechista commentare: “Qui da noi, non si muove foglia... che il parroco non voglia!” Colto immediatamente il senso, vengo a sapere che ne è alla guida da quasi un ventennio. Ormai conosce tutto a memoria, la vita diventa abitudine, la novità raramente un segno dello Spirito... Un anziano pensionato della parrocchia vicina, invece, dal tratto umile e delicato, assiduo in parrocchia ogni giorno per ore come prezioso factotum, vedendomi, si lascia sfuggire un sorriso dubbio: “Sa, da noi sono passati molti parroci - mi fa timido, ciononostante sicuro di sè - ma sono tutti uguali, anche il giovane prete venuto da poco...” Mi chiedo, allora, quale potrebbe essere questo strano denominatore comune, che lega insieme tante e diverse personalità. Lo scopro dopo qualche passo del discorso: decidere sempre ogni cosa da soli. Prima ancora di consultare la propria comunità. Forse, un caso raro.


Si direbbe che il leader non è colui che “cammina accanto, un passo innanzi” - come suggerisce un teologo - ma sovrasta il suo popolo, gli sta verticalmente sopra. Forse, mi dico, è il caso di un mondo passato ormai da qualche secolo, ma le cui tracce possono sopravvivere a lungo, invisibili e resistenti nelle nostre mentalità. Restano nascoste nelle pieghe del nostro pensiero o in semplici atteggiamenti quotidiani. È uno spirito antico: quello che faceva vivere il mondo feudale. Questo mondo potremmo definirlo semplicisticamente con i tre elementi imparati a scuola: un signore, una terra (un suo feudo) e un rapporto particolare. E questo rapporto possiede sempre un preciso, sottile senso di dominio da una parte e un carattere di fedeltà pieno, assoluto dall’altra. Anche nella nostra società di oggi può verificarsi questo feudalesimo mentale, che resiste nel tempo...

Il pastore, invece, è proprio colui che “cammina accanto, un passo innanzi”. Vivere all’estero come missionario sconvolge i nostri dati e mostra la necessità di una “pastorale di comunione”. Anche perchè spesso si avanza in un contesto multireligioso, che fa emergere le differenze che ci accompagnano. Ma, come ricorda una regola d’oro della semantica, è la differenza che crea il senso. Così, di fronte a religioni o sensibilità religiose diverse possiamo cogliere meglio il punto di gravità o l’identità profonda del nostro essere pastori o discepoli del Cristo.

Mentre la comunità musulmana, infatti, nostra vicina, sottolinea nella verticalità del minareto la verticalità simbolica di un rapporto direttamente sottoposto a Dio o a chi possiede un’autorità, la nostra fede pone l’accento nella circolarità dell’essere insieme, dell’essere accanto. È la rivoluzione copernicana di Dio. È il suo “farsi Emmanuele,” Dio-con-noi, in fondo, attraverso il valore della comunione. Questa trova la sua icona più bella nella Trinità: il tratto più originale del volto della nostra fede. La comunione entra, così, nel cuore stesso di Dio come un tesoro, diventa la sua stessa vita. Ed è precisamente l’inverso di un mondo feudale stratificato o sovrapposto.

Quotidianamente, come missionario dei migranti all’estero sono chiamato alla sfida di costruire insieme a loro una laboriosa pastorale di comunione. Dove comunità e persone di cultura e lingua differenti sappiano incontrarsi, comunicare, comprendersi e collaborare. Sapendo che il leader vivrà sempre una doppia e difficile sfida: la sfida del dialogo e della sintesi. Non tanto chiamato a imporre la propria volontà, ma a costruire insieme un mondo nuovo, aperto, più fraterno. Dove lui stesso brillerà più di ogni altro di questa qualità di Dio: la comunionalità. La fraternità, in fondo. Per “camminare accanto, un passo innanzi” a una comunità che avanza verso il Regno di Dio. Una vera vita di comunione.

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