Nelle cave a cielo aperto di Moatize la protesta è cominciata la settimana scorsa. Centinaia di minatori hanno sfilato per dire “no” ai 6500 licenziamenti annunciati da una delle ditte subappaltatrici di Vale, il gruppo brasiliano che sta mettendo le mani sul carbone del Mozambico.
Agenzia Misna - Per chiudere i pozzi di epoca coloniale e avviare l’anno prossimo lo sfruttamento su ampia scala sono stati impegnati un miliardo e 700.000 dollari, circa un miliardo e 230.000 euro. “Quei 6500 operai non hanno alcuna qualifica, servivano solo per i lavori pesanti” dice alla MISNA padre Tiago Palagi, l’amministratore apostolico della diocesi di Tete, quella della nuova miniera. Dalla finestra della sua canonica questo missionario comboniano guarda lo “Zambesi”, non il fiume, ma l’albergo a cinque stelle che ospita i manager e i tecnici stranieri di Vale. Il gruppo brasiliano li ha portati in Mozambico per produrre 11.000 tonnellate di carbone l’anno, merce preziosa da rivendere sui mercati della Cina o dell’India, dove la produzione di acciaio tira forte e per gli altiforni serve energia. “È una corsa sfrenata al profitto prima che la coscienza del mondo si risvegli” protesta padre Tiago, pensando all’inquinamento e ai danni ambientali provocati da quest’industria ereditata dal Novecento. A pagare il conto, però, non è solo la natura. Gira voce - una barzelletta, forse - che Vale voglia ristrutturare l’ospedale cittadino per i nuovi casi di silicosi derivanti dall’esposizione alle polveri di carbone nelle cave a cielo aperto. Di sicuro, i brasiliani contano sul sostegno e le agevolazioni del governo del Mozambico. “In questo modo – sostiene padre Tiago – hanno potuto mandare via migliaia di contadini per far posto a cave e macchinari”. Dal nulla, a 30 o più chilometri di distanza, sono sorti i villaggi di “reinsediamento”. Ideali per gente senza lavoro, pronta ad accettare paghe da fame pur di farsi assumere. È stato così con Vale ma potrebbe andare allo stesso modo con Riversadale, il gruppo australiano che spera di avviare la produzione nella miniera di Benga nel 2012. L’idea di fondo è che in Mozambico le multinazionali vogliano fare in fretta perché nel medio e lungo periodo lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili penalizzerà il mercato del carbone. Un problema che Vale e le altre non si pongono invece in Zambia, uno dei più grandi produttori mondiali di rame. Lo conferma il progetto Chililabombwe, una miniera a pochi chilometri dal confine con la Repubblica democratica del Congo dove si è cominciato a lavorare una settimana fa. Insieme con Africa Rainbow Minerals, una società registrata in Sudafrica, Vale conta di estrarre 45.000 tonnellate di rame a partire dal 2012. “Il governo – dice alla MISNA Edmond Kangamungazi, responsabile di Caritas Zambia per la giustizia economica e ambientale – offre ogni tipo di incentivi: dalle ispezioni sul lavoro al regime fiscale fino alle deroghe sulla durata dei contratti a progetto”. Quest’anno la produzione nazionale di rame dovrebbe superare le 720.000 tonnellate, il massimo storico dal 1973, ma il settore minerario continua a valere appena il 5% delle entrate dello Stato. L’amministrazione di Kalulushi, una comunità della regione mineraria di Copperbelt, ha scritto nero su bianco che esenzioni fiscali e regimi di favore significano bancarotta. La responsabilità è del governo, sembra di capire, attento all’esigenza di attrarre investimenti dall’estero ma non ai diritti dei lavoratori. “Nelle miniere – sottolinea Kangamungazi - si lavora per un dollaro al giorno, senza elmetti, senza scarponi, senza sicurezza”. A Lusaka ha fatto scalpore il caso di due cittadini cinesi incriminati per aver sparato su una folla di minatori che protestavano per i salari e le condizioni di lavoro. Timori per il futuro sono stati espressi da diversi sindacati. “In termini di rispetto dei diritti e tutela ambientale – dice alla MISNA Charles Bwendo Muchimba, responsabile comunicazione di ‘Mine Workers Union of Zambia’ – Vale ha precedenti pessimi: non la vogliamo”.
Agenzia Misna - Per chiudere i pozzi di epoca coloniale e avviare l’anno prossimo lo sfruttamento su ampia scala sono stati impegnati un miliardo e 700.000 dollari, circa un miliardo e 230.000 euro. “Quei 6500 operai non hanno alcuna qualifica, servivano solo per i lavori pesanti” dice alla MISNA padre Tiago Palagi, l’amministratore apostolico della diocesi di Tete, quella della nuova miniera. Dalla finestra della sua canonica questo missionario comboniano guarda lo “Zambesi”, non il fiume, ma l’albergo a cinque stelle che ospita i manager e i tecnici stranieri di Vale. Il gruppo brasiliano li ha portati in Mozambico per produrre 11.000 tonnellate di carbone l’anno, merce preziosa da rivendere sui mercati della Cina o dell’India, dove la produzione di acciaio tira forte e per gli altiforni serve energia. “È una corsa sfrenata al profitto prima che la coscienza del mondo si risvegli” protesta padre Tiago, pensando all’inquinamento e ai danni ambientali provocati da quest’industria ereditata dal Novecento. A pagare il conto, però, non è solo la natura. Gira voce - una barzelletta, forse - che Vale voglia ristrutturare l’ospedale cittadino per i nuovi casi di silicosi derivanti dall’esposizione alle polveri di carbone nelle cave a cielo aperto. Di sicuro, i brasiliani contano sul sostegno e le agevolazioni del governo del Mozambico. “In questo modo – sostiene padre Tiago – hanno potuto mandare via migliaia di contadini per far posto a cave e macchinari”. Dal nulla, a 30 o più chilometri di distanza, sono sorti i villaggi di “reinsediamento”. Ideali per gente senza lavoro, pronta ad accettare paghe da fame pur di farsi assumere. È stato così con Vale ma potrebbe andare allo stesso modo con Riversadale, il gruppo australiano che spera di avviare la produzione nella miniera di Benga nel 2012. L’idea di fondo è che in Mozambico le multinazionali vogliano fare in fretta perché nel medio e lungo periodo lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili penalizzerà il mercato del carbone. Un problema che Vale e le altre non si pongono invece in Zambia, uno dei più grandi produttori mondiali di rame. Lo conferma il progetto Chililabombwe, una miniera a pochi chilometri dal confine con la Repubblica democratica del Congo dove si è cominciato a lavorare una settimana fa. Insieme con Africa Rainbow Minerals, una società registrata in Sudafrica, Vale conta di estrarre 45.000 tonnellate di rame a partire dal 2012. “Il governo – dice alla MISNA Edmond Kangamungazi, responsabile di Caritas Zambia per la giustizia economica e ambientale – offre ogni tipo di incentivi: dalle ispezioni sul lavoro al regime fiscale fino alle deroghe sulla durata dei contratti a progetto”. Quest’anno la produzione nazionale di rame dovrebbe superare le 720.000 tonnellate, il massimo storico dal 1973, ma il settore minerario continua a valere appena il 5% delle entrate dello Stato. L’amministrazione di Kalulushi, una comunità della regione mineraria di Copperbelt, ha scritto nero su bianco che esenzioni fiscali e regimi di favore significano bancarotta. La responsabilità è del governo, sembra di capire, attento all’esigenza di attrarre investimenti dall’estero ma non ai diritti dei lavoratori. “Nelle miniere – sottolinea Kangamungazi - si lavora per un dollaro al giorno, senza elmetti, senza scarponi, senza sicurezza”. A Lusaka ha fatto scalpore il caso di due cittadini cinesi incriminati per aver sparato su una folla di minatori che protestavano per i salari e le condizioni di lavoro. Timori per il futuro sono stati espressi da diversi sindacati. “In termini di rispetto dei diritti e tutela ambientale – dice alla MISNA Charles Bwendo Muchimba, responsabile comunicazione di ‘Mine Workers Union of Zambia’ – Vale ha precedenti pessimi: non la vogliamo”.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.