Del nostro collaboratore redazionale Stefano Buso
La crisi serpeggia ovunque, nei negozi, tra le bancarelle rionali, nei centri commerciali, nei locali pubblici. Serrande abbassate, fiacca, visi tristi, e nessuna voglia di continuare a sperare. I soldi sono pochi, e con quelli bisogna tirar avanti. I tempi delle spese frivole e della shopmania sembrano lontani. Mentre diminuiscono i danari e le famiglie italiane sono con l’acqua alla gola, aumentano le tensioni sociali e la sfiducia nei confronti della classe dirigente che amministra il Paese.
È palese che nelle situazioni di insicurezza economica vengano meno certezze e garanzie che sino a qualche tempo prima erano scontate. La sfiducia verso il governo si allarga come una macchia d’olio. Tutti sono consapevoli che il loro futuro sta assumendo “colorazioni” preoccupanti. Diminuisce, inoltre, la produttività delle aziende perché mancano richieste sia nazionali sia internazionali. La concorrenza di Cina e India non è più sostenibile causa il costo del lavoro, nettamente concorrenziale al nostro. Come se ciò non bastasse, difettano politiche lungimiranti per affrontare la disoccupazione che avanza (e che non sarà breve).
Le mancate prospettive occupazionali vanno a implementare il serbatoio di malcontento il cui livello sale giorno dopo giorno. Due anni fa, quando la crisi varcò l’Atlantico approdando in Europa, si enfatizzavano due aspetti salienti che è bene non scordare: da una flessione globale in seguito sarebbero nate ulteriori opportunità per erigere un sistema economico equo e solidale; in più, i conti degli stati comunitari non avrebbero accusato “il botto” arrivato dagli USA né si sarebbero verificate le situazioni patite dagli americani.
Le cose andarono in modo diverso: ricorso alla cassa integrazione, licenziamenti che hanno colpito la piccola, media e grande impresa, e l’inevitabile aumento della disoccupazione, da nord a sud. Le strategie attuate per cavalcare e uscire dalla recessione hanno un nome tristemente noto: tagli! Si abbattono salari, incentivi, produttività, straordinari, si mette in discussione la spesa sociale che comprende sanità, farmaci, assistenza, scuola e trasporti. Sembra paradossale, ma uno degli aspetti che accomuna questa depressione globale è che a pagarne le conseguenze sono sempre le fasce più vulnerabili. Operai, impiegati, insegnati, lavoratori salariati e pensionati in primis. Poche risorse, diritti sacrosanti cancellati e inevitabile decollo dell’ingiustizia sociale.
I bisogni delle persone vengono così gettati alle ortiche, mentre per l’ennesima volta l’esile economia delle famiglie e i loro risparmi dovranno far da paracadute all’economia collettiva. Della serie “chi l’ha detto che i sacrifici devono farli indistintamente tutti, tanto ci sono i poveracci che provvedono”! In pratica sono sotto lo sguardo di tutti una lunga fila di inevitabili effetti collaterali causati da una crisi importante e generale, ma sin da subito sottovalutata. Per fronteggiarla è venuto meno quella che doveva essere una terapia funzionale, mentre è evidente che si sia cercato di arginarla con pezze e cerotti. Previsioni di guarigione? Chi può dirlo…
È palese che nelle situazioni di insicurezza economica vengano meno certezze e garanzie che sino a qualche tempo prima erano scontate. La sfiducia verso il governo si allarga come una macchia d’olio. Tutti sono consapevoli che il loro futuro sta assumendo “colorazioni” preoccupanti. Diminuisce, inoltre, la produttività delle aziende perché mancano richieste sia nazionali sia internazionali. La concorrenza di Cina e India non è più sostenibile causa il costo del lavoro, nettamente concorrenziale al nostro. Come se ciò non bastasse, difettano politiche lungimiranti per affrontare la disoccupazione che avanza (e che non sarà breve).
Le mancate prospettive occupazionali vanno a implementare il serbatoio di malcontento il cui livello sale giorno dopo giorno. Due anni fa, quando la crisi varcò l’Atlantico approdando in Europa, si enfatizzavano due aspetti salienti che è bene non scordare: da una flessione globale in seguito sarebbero nate ulteriori opportunità per erigere un sistema economico equo e solidale; in più, i conti degli stati comunitari non avrebbero accusato “il botto” arrivato dagli USA né si sarebbero verificate le situazioni patite dagli americani.
Le cose andarono in modo diverso: ricorso alla cassa integrazione, licenziamenti che hanno colpito la piccola, media e grande impresa, e l’inevitabile aumento della disoccupazione, da nord a sud. Le strategie attuate per cavalcare e uscire dalla recessione hanno un nome tristemente noto: tagli! Si abbattono salari, incentivi, produttività, straordinari, si mette in discussione la spesa sociale che comprende sanità, farmaci, assistenza, scuola e trasporti. Sembra paradossale, ma uno degli aspetti che accomuna questa depressione globale è che a pagarne le conseguenze sono sempre le fasce più vulnerabili. Operai, impiegati, insegnati, lavoratori salariati e pensionati in primis. Poche risorse, diritti sacrosanti cancellati e inevitabile decollo dell’ingiustizia sociale.
I bisogni delle persone vengono così gettati alle ortiche, mentre per l’ennesima volta l’esile economia delle famiglie e i loro risparmi dovranno far da paracadute all’economia collettiva. Della serie “chi l’ha detto che i sacrifici devono farli indistintamente tutti, tanto ci sono i poveracci che provvedono”! In pratica sono sotto lo sguardo di tutti una lunga fila di inevitabili effetti collaterali causati da una crisi importante e generale, ma sin da subito sottovalutata. Per fronteggiarla è venuto meno quella che doveva essere una terapia funzionale, mentre è evidente che si sia cercato di arginarla con pezze e cerotti. Previsioni di guarigione? Chi può dirlo…
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