giovedì, ottobre 07, 2010
La nostra corrispondente a Gerusalemme Raffaela Corrias ci parla di "Breaking the silence"

Vivendo a Gerusalemme si è sommersi, in effetti sarebbe meglio dire sopraffatti, dalla storia. Le pietre di questa città parlano da oltre tremila anni. Ma tra le mura della “Old city” o lungo il viale pedonale Ben Yehuda una domanda rimane priva di risposta: com’è dall’altra parte? Dall’altra parte, ossia oltre il muro di protezione, nei Territori Occupati dall’esercito israeliano durante la guerra dei sei giorni, nel 1967. Dall’altra parte, in Cisgiordania, o come ormai si dice anche da noi sulla riva occidentale del fiume Giordano, nel West Bank.
Dall’altra parte significa, per esempio, Hebron. La città, infatti, gioca un importante ruolo dal punto di vista culturale, storico e religioso sia per i musulmani che per gli ebrei ed è l’unica realtà in cui famiglie palestinesi ed ebree condividono i muri adiacenti delle loro case. Sulle colline, nelle vicinanze, la situazione di prossimità tra villaggi arabi e insediamenti israeliani, lontano dai riflettori, è altrettanto complessa.

Esiste un tour organizzato proprio in quella zona: partenza la mattina da Gerusalemme e ritorno nel primo pomeriggio. La visita è organizzata da “Breaking the silence” (“Rompendo il silenzio”) un’organizzazione composta da ex-soldati dell’esercito israeliano che, nella maggior parte dei casi, hanno prestato il loro servizio militare nel West Bank e nella striscia di Gaza. “Breaking the silence” ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica relativamente a una parte di realtà che non emerge dai media nel Paese: la vita quotidiana dei soldati nei Territori Occupati.

L’associazione nasce da un’iniziativa di alcuni giovani che, nel 2004, decidono di organizzare una mostra fotografica sulla propria esperienza durante il servizio militare. Consapevoli del fatto che parenti e amici non sanno che cosa accade nei “Territori”, vogliono, grazie alle immagini, portare Hebron a Tel Aviv. Nonostante il suo carattere “artigianale”, la mostra ha successo: più di ottomila ingressi a Tel Aviv e ulteriori edizioni in altre città d’Israele. Gli organizzatori decidono così di strutturare e rendere continuativo il proprio impegno. Per questo, da allora, “Breaking the silence” organizza tour di stampo informativo ed educativo a Hebron e dintorni, implementa mostre e iniziative di sensibilizzazione, raccoglie e pubblica testimonianze di soldati.

Un punto di vista così particolare non può non incuriosire. Mi iscrivo a un tour e mi presento all’autobus il giorno e l’ora fissati, con vestiti comodi e tanta acqua. Siamo una cinquantina di persone, tra di noi alcuni ebrei. La nostra guida è un ragazzo di 27 anni che ha prestato il servizio militare a partire dal 2001 nell’area in cui è stata organizzata la visita. Ci racconta di essere cresciuto nel nord del Paese guardando notizie di autobus in fiamme e attacchi terroristici alla televisione. Ci dice che per questo, terminate le scuole superiori, gli è chiara la necessità di impegnarsi per difendere la propria famiglia e il proprio Paese. Il modo migliore per garantire la sopravvivenza del proprio popolo è la richiesta di servire per i tre anni di ferma obbligatoria presso una unità combattente. Così accade. Inizia l’addestramento. Dopo otto mesi, volti alla preparazione per difendere i confini nazionali da un attacco meccanizzato dal nord, la giovane recluta e il suo reparto vengono invece spediti nel West Bank, con all’attivo una settimana di corso sul mantenimento dell’ordine pubblico.

Intanto il nostro viaggio continua. Arriviamo ad un check point. I documenti non bastano, dobbiamo scendere dal pullman e attendere qualche minuto: ragioni di sicurezza. Ripartiamo e vediamo luoghi che ci parlano della storia di queste terre. Ascoltiamo testimonianze di alcune persone che qui vivono. Purtroppo sentiamo una parte sola: a quanto ci dice la guida, il tour non è ben visto da alcuni dei coloni degli insediamenti illegali.

Ci fermiamo in un piccolo villaggio arabo di tende e lamiere. Di fronte un agglomerato di casette ordinate. È un insediamento israeliano che porta lo stesso nome del villaggio palestinese dove stiamo sostando: un’altra Susya, solo un po’ più in là...

Rannicchiati sotto un telo per proteggerci dal caldo del sole battente, ascoltiamo le parole di un palestinese e della sua famiglia sulle difficoltà che ruotano intorno al concetto di “proprietà della terra”. Su questa terra si sono sovrapposte dominazioni straniere, gli Ottomani prima, gli Inglesi poi, lasciando in eredità un dedalo di leggi e di registri catastali. L’esito di questa confusione è che spesso il più forte si impone. Le situazioni di tensione che sfociano in atti di violenza sono tante.

Durante una delle tappe del tour ci raggiunge una camionetta israeliana e il comandante della zona, rivolgendosi alla nostra guida, chiede spiegazioni sulla nostra presenza. Qualcuno dei partecipanti non riesce a trattenersi dallo scattare alcune foto al mezzo, provocando l’intervento del militare responsabile della pattuglia. Non ci sono conseguenze, ma la camionetta ci seguirà per gran parte della visita.

Sulla via del ritorno ci consegnano un libricino dell’associazione. Si apre con “Testimonianza 1, Hebron”. Alla domanda: “Cosa ti ricordi di Hebron?” il testimone risponde: “Mettiamola così: è un posto dove molti soldati sentono che stanno facendo qualcosa di sbagliato. Lo intuiscono e provano disperazione. Posso dire con cognizione di causa che il potere che eserciti in quei luoghi è incredibile. Te ne vai in giro armato in un posto dove così tante persone ti odiano, così come accade quando entri nelle loro case. È una sorta di provocazione che avverti tutto il tempo. Entri in una casa per un controllo così, prendendo a calci le persone per farle uscire. Questo è il mio ricordo”.

Alla fine del tour una ragazza francese domanda alla guida quello che tutti si chiedono: come si fa a fare questo lavoro e vivere normalmente in Israele? La guida replica distinguendo due livelli: quello della famiglia, che non ha mai accettato la sua scelta di attivismo, e quello di integrazione nella società, aspetto che non è stato compromesso. Nonostante il suo impegno con “Breaking the silence”, infatti, ha ricevuto un’offerta di lavoro da parte dell’esercito in ragione della sua ottima condizione psicofisica.

Siamo di nuovo a Gerusalemme. Sulla via verso casa rifletto sul silenzio e sulla parola. E penso alla forza, alla potenza, che può avere una parola ben detta.


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