L’Ue valuta la posizione di Belgrado rispetto all’adesione, tra cronaca e stereotipi
PeaceReporter - Oggi, 25 ottobre 2010, si riuniscono a Lussemburgo i ministri degli Esteri dell'Unione Europea (Ue). In agenda tanti problemi, ma il focus sarà sui paesi dei Balcani occidentali e il loro cammino verso l'adesione al club di Bruxelles. Le posizioni sono differenti; dalla Croazia che ha ormai un piede dentro, alla complicata Bosnia-Erzegovina, fino alla zelante Albania. Poi la Serbia. Un caso a parte, almeno a leggere le cronache di questi giorni. Per anni siamo stati abituati a pensare i burocrati dell'Ue come dei vecchi contabili da film anni Trenta, chini sulle loro calcolatrici, visiera e maniche di camicia, per verificare i parametri di Maastricht. I conti in ordine, per intenderci. Nelle ultime ore, almeno per quello che riguarda Belgrado, pare invece essere importante il parametro Bogdanov. Già, proprio lui, Ivan dai mille tatuaggi, l'uomo nero appeso a una balaustra dello Stadio Luigi Ferraris di Genova, altrimenti noto come Marassi.
Rispetto a tutto quello che è accaduto il 12 ottobre scorso, le attenzioni dei media si erano spostate su Belgrado stessa, dove sabato 23 ottobre si giocava la madre di tutte le partite: Stella Rossa - Partizan, il derby. Misure di sicurezza imponenti, capienza dello stadio Marakanà ridotta all'osso. Non è successo niente, salvo la vittoria del Partizan che riapre il campionato, finora guidato dalla Stella Rossa. Secondo il parametro Bogdanov, dunque, la Serbia merita di entrare in Europa.
Non è così, perché non era indicativo prima (in negativo) e non può esserlo adesso (in positivo) il comportamento degli ultrà del pallone malato per una decisione del genere. Solo che Ivan, malgrado le parole strappalacrime della mamma, è un archetipo. La figura apotropaica che, come un gargoyle di Notre Dame a Parigi, materializza tutti gli schemi precostituiti sui quali è costruito il pregiudizio contro la Serbia. I barbari, assetati di violenza, gli slavi che premono al confine orientale.
Quello che dobbiamo chiederci, però, è qual'è la differenza che passa tra il prode Ivan e Stefano S., R. M. M. e S. C. (i nomi non vennero resi noti), i tre prodi che guidarono l'invasione di campo allo Stadio Olimpico di Roma il 23 marzo 2004, durante il derby Roma - Lazio. I signori, in base a una bufala che girava allo stadio secondo la quale un ragazzino era morto durante le cariche della polizia (ma chissà se lo hanno pensato mai per davvero) intimarono ai giocatori di rientrare negli spogliatoi. Minacciandoli a bordo campo, parlando con loro e con l'arbitro, come dirigenti accreditati. Un'umiliazione per tutti coloro che amano il gioco più bello del mondo, un'umiliazione per un paese civile. Nessuno, allora, si sognò di sbatterci fuori dall'Ue. Un altro derby, a Milano, è finito con un motorino in fiamme lanciato dagli spalti. Perché il tifo violento è un problema della società contemporanea, senza una bandiera particolare. Si è scritto di una regia mafiosa dietro i tifosi serbi; anche questo non è una prerogativa che li rende differenti da altre curve, da altri stadi.
Basti pensare che il personaggio sospettato di essere ‘l'anima nera' dei tifosi serbi a Genova, Dragan Stojanovic detto Keka, è in affari con il fratello del presidente del Montenegro, Milo Djukanovic, ricevuto con tutti gli onori dal premier italiano Silvio Berlusconi.
Problema diffuso, quindi, quello del radicalismo di destra, che nelle curve degli stadi trova un impunito verminaio, ma si diffonde in tutte le società. Ivan ha negato qualsiasi legame con la politica, ma non è importante che questo sia vero o falso. Lui e tanti altri, quel giorno, ostentavano simboli di un'estrema destra che a Belgrado è un problema. Come lo è, però, in Italia, dove personaggi politici che fanno della xenofobia uno slogan elettorale siedono in Parlamento. Stesso discorso per l'Austria, dove i neonazisti (nella ‘rossa' Vienna) prendono il ventisette percento dei voti. E' un problema per l'Ungheria, dove in Parlamento c'è gente con la divisa di una milizia di estrema destra, come in Slovacchia, dove si ergono muri anti rom e si configurano lotte di confine con Budapest per le minoranze disperse nel 1920! Anche la Svezia, che solo a dirlo pare un ossimoro, ha un problema con l'estrema destra. Si fanno chiamare Democratici di Svezia, ma parlano di espulsioni di massa per gli immigrati. Espulsioni su base etnica che, tra le polemiche, continuano silenziose nella civilissima Francia. Per non parlare dell'Olanda, storico bastione anti-serbo nell'Ue, che avrà al governo il signor Wilders, ancora sotto processo per istigazione all'odio razziale.
Tutta la società contemporanea ha un problema con un'estrema destra dilagante, non solo la Serbia. Uno dei temi forti di questi personaggi è l'odio verso gli omosessuali. Nel giro di pochi giorni, come per una regia accurata, Belgrado è finita nel tritacarne mediatico anche per le botte da orbi del Gay Parade nella capitale serba il 10 ottobre scorso. La polizia ha protetto i dimostranti dell'orgoglio omosessuale, scontrandosi duramente con gli estremisti di destra. Centinaia di feriti, decine di arresti. Un'impressionante aggressione. Ma se si vuole valutare il governo serbo e la società, bisogna farlo con equilibrio. Le immagini angoscianti provenienti da Belgrado raccontano di un cammino molto intenso verso certi parametri di civile convivenza. Nel 2001 la polizia, per la stessa manifestazione, aveva lasciato gli omosessuali in balia dei fascisti, quasi solidarizzando con questi ultimi. Nel 2009, per la medesima iniziativa, il presidente serbo Tadic dovette ammettere che le istituzioni non sarebbero state in grado di garantire l'ordine pubblico. Quest'anno il corteo c'è stato, i dimostranti illesi sono potuti tornare a casa. Questo, senza pregiudizi, è un impegno che merita rispetto a Bruxelles.
Il presidente Tadic, vincendo le difficili elezioni del 2008, con l'indipendenza concessa al Kosovo dalla comunità internazionale, ha vinto una battaglia dura, molto dura. Tadic non è il migliore degli uomini politici. Le sue connessioni con gli affari e la finanza della Belgrado che conta sono al livello delle peggiori P3 e delle ‘cricche' in giro per l'Europa. Ma gli va riconosciuto di aver riformato il codice penale e abolito la leva obbligatoria, rivisto la legislazione in tema di diritti umani applicandola alla riforma del sistema giudiziario. Ha privatizzato quasi tutto, come vuole il Fondo Monetario Internazionale, l'Ue e i suoi padrini finanziari. Non ha ancora catturato Mladic, però, replica l'ostinata Olanda. Vero, ma ha assicurato alla giustizia Radovan Karadzic e tanti altri. I mostri del genocidio di Srebrenica devono essere assicurati alla giustizia, questo è certo. Tadic ci ha messo la faccia e a Srebrenica ci è andato di persona, mentre non si è visto (come testimonia chi scrive) il giorno dopo alla festa dei nazionalisti serbi. Sono segnali importanti, di un impegno concreto. Non un caso, come non lo è il fatto che i diari di Ratko Mladic siano stati ritrovati nella casa della moglie, a Belgrado, dietro un armadio e in soffitta. Possibile che nessuno li avesse notati prima del 2008? Difficile crederlo, ma il governo dal 2008 ha tagliato ponti importanti con ambienti marci dell'intelligence e delle forze armate. Non è poco, non si fa Roma in un giorno.
Domani, dunque, a Lussemburgo l'Ue è chiamata a un giudizio sereno. Lo sblocco delle procedure dei visti, per i ragazzi serbi, vale più di mille parole. I giovani e in non più tanto giovani che nel 1996 prima e nel 2000 poi scesero in strada per cacciare da soli Slobodan Milosevic sono ancora là e aspettano che l'Europa torni a essere quello che era: una parte di loro. Nel bene e nel male. Con i problemi che attanagliano tutti gli europei (e non solo) in questi tempi obliqui.
Belgrado bussa alle porte dell'Europa. Conviene aprire, perché abbiamo dei problemi da risolvere tutti assieme. Il parametro Bogdanov è in ogni città e dell'uomo nero, sotto il passamontagna, non si riconosce la nazionalità. Dovremmo anzi invitarla la Serbia, come la Bosnia-Erzegovina e la Croazia. Farle entrare nel club, dargli le poltrone del salotto buono. Perché portano sulla pelle le ferite dei massacri degli anni Novanta e possono spiegare a tutti noi cosa può accadere a giocare con il fuoco dei localismi, delle religioni, delle divisioni etniche. Ben tornata a casa, Serbia.
Rispetto a tutto quello che è accaduto il 12 ottobre scorso, le attenzioni dei media si erano spostate su Belgrado stessa, dove sabato 23 ottobre si giocava la madre di tutte le partite: Stella Rossa - Partizan, il derby. Misure di sicurezza imponenti, capienza dello stadio Marakanà ridotta all'osso. Non è successo niente, salvo la vittoria del Partizan che riapre il campionato, finora guidato dalla Stella Rossa. Secondo il parametro Bogdanov, dunque, la Serbia merita di entrare in Europa.
Non è così, perché non era indicativo prima (in negativo) e non può esserlo adesso (in positivo) il comportamento degli ultrà del pallone malato per una decisione del genere. Solo che Ivan, malgrado le parole strappalacrime della mamma, è un archetipo. La figura apotropaica che, come un gargoyle di Notre Dame a Parigi, materializza tutti gli schemi precostituiti sui quali è costruito il pregiudizio contro la Serbia. I barbari, assetati di violenza, gli slavi che premono al confine orientale.
Quello che dobbiamo chiederci, però, è qual'è la differenza che passa tra il prode Ivan e Stefano S., R. M. M. e S. C. (i nomi non vennero resi noti), i tre prodi che guidarono l'invasione di campo allo Stadio Olimpico di Roma il 23 marzo 2004, durante il derby Roma - Lazio. I signori, in base a una bufala che girava allo stadio secondo la quale un ragazzino era morto durante le cariche della polizia (ma chissà se lo hanno pensato mai per davvero) intimarono ai giocatori di rientrare negli spogliatoi. Minacciandoli a bordo campo, parlando con loro e con l'arbitro, come dirigenti accreditati. Un'umiliazione per tutti coloro che amano il gioco più bello del mondo, un'umiliazione per un paese civile. Nessuno, allora, si sognò di sbatterci fuori dall'Ue. Un altro derby, a Milano, è finito con un motorino in fiamme lanciato dagli spalti. Perché il tifo violento è un problema della società contemporanea, senza una bandiera particolare. Si è scritto di una regia mafiosa dietro i tifosi serbi; anche questo non è una prerogativa che li rende differenti da altre curve, da altri stadi.
Basti pensare che il personaggio sospettato di essere ‘l'anima nera' dei tifosi serbi a Genova, Dragan Stojanovic detto Keka, è in affari con il fratello del presidente del Montenegro, Milo Djukanovic, ricevuto con tutti gli onori dal premier italiano Silvio Berlusconi.
Problema diffuso, quindi, quello del radicalismo di destra, che nelle curve degli stadi trova un impunito verminaio, ma si diffonde in tutte le società. Ivan ha negato qualsiasi legame con la politica, ma non è importante che questo sia vero o falso. Lui e tanti altri, quel giorno, ostentavano simboli di un'estrema destra che a Belgrado è un problema. Come lo è, però, in Italia, dove personaggi politici che fanno della xenofobia uno slogan elettorale siedono in Parlamento. Stesso discorso per l'Austria, dove i neonazisti (nella ‘rossa' Vienna) prendono il ventisette percento dei voti. E' un problema per l'Ungheria, dove in Parlamento c'è gente con la divisa di una milizia di estrema destra, come in Slovacchia, dove si ergono muri anti rom e si configurano lotte di confine con Budapest per le minoranze disperse nel 1920! Anche la Svezia, che solo a dirlo pare un ossimoro, ha un problema con l'estrema destra. Si fanno chiamare Democratici di Svezia, ma parlano di espulsioni di massa per gli immigrati. Espulsioni su base etnica che, tra le polemiche, continuano silenziose nella civilissima Francia. Per non parlare dell'Olanda, storico bastione anti-serbo nell'Ue, che avrà al governo il signor Wilders, ancora sotto processo per istigazione all'odio razziale.
Tutta la società contemporanea ha un problema con un'estrema destra dilagante, non solo la Serbia. Uno dei temi forti di questi personaggi è l'odio verso gli omosessuali. Nel giro di pochi giorni, come per una regia accurata, Belgrado è finita nel tritacarne mediatico anche per le botte da orbi del Gay Parade nella capitale serba il 10 ottobre scorso. La polizia ha protetto i dimostranti dell'orgoglio omosessuale, scontrandosi duramente con gli estremisti di destra. Centinaia di feriti, decine di arresti. Un'impressionante aggressione. Ma se si vuole valutare il governo serbo e la società, bisogna farlo con equilibrio. Le immagini angoscianti provenienti da Belgrado raccontano di un cammino molto intenso verso certi parametri di civile convivenza. Nel 2001 la polizia, per la stessa manifestazione, aveva lasciato gli omosessuali in balia dei fascisti, quasi solidarizzando con questi ultimi. Nel 2009, per la medesima iniziativa, il presidente serbo Tadic dovette ammettere che le istituzioni non sarebbero state in grado di garantire l'ordine pubblico. Quest'anno il corteo c'è stato, i dimostranti illesi sono potuti tornare a casa. Questo, senza pregiudizi, è un impegno che merita rispetto a Bruxelles.
Il presidente Tadic, vincendo le difficili elezioni del 2008, con l'indipendenza concessa al Kosovo dalla comunità internazionale, ha vinto una battaglia dura, molto dura. Tadic non è il migliore degli uomini politici. Le sue connessioni con gli affari e la finanza della Belgrado che conta sono al livello delle peggiori P3 e delle ‘cricche' in giro per l'Europa. Ma gli va riconosciuto di aver riformato il codice penale e abolito la leva obbligatoria, rivisto la legislazione in tema di diritti umani applicandola alla riforma del sistema giudiziario. Ha privatizzato quasi tutto, come vuole il Fondo Monetario Internazionale, l'Ue e i suoi padrini finanziari. Non ha ancora catturato Mladic, però, replica l'ostinata Olanda. Vero, ma ha assicurato alla giustizia Radovan Karadzic e tanti altri. I mostri del genocidio di Srebrenica devono essere assicurati alla giustizia, questo è certo. Tadic ci ha messo la faccia e a Srebrenica ci è andato di persona, mentre non si è visto (come testimonia chi scrive) il giorno dopo alla festa dei nazionalisti serbi. Sono segnali importanti, di un impegno concreto. Non un caso, come non lo è il fatto che i diari di Ratko Mladic siano stati ritrovati nella casa della moglie, a Belgrado, dietro un armadio e in soffitta. Possibile che nessuno li avesse notati prima del 2008? Difficile crederlo, ma il governo dal 2008 ha tagliato ponti importanti con ambienti marci dell'intelligence e delle forze armate. Non è poco, non si fa Roma in un giorno.
Domani, dunque, a Lussemburgo l'Ue è chiamata a un giudizio sereno. Lo sblocco delle procedure dei visti, per i ragazzi serbi, vale più di mille parole. I giovani e in non più tanto giovani che nel 1996 prima e nel 2000 poi scesero in strada per cacciare da soli Slobodan Milosevic sono ancora là e aspettano che l'Europa torni a essere quello che era: una parte di loro. Nel bene e nel male. Con i problemi che attanagliano tutti gli europei (e non solo) in questi tempi obliqui.
Belgrado bussa alle porte dell'Europa. Conviene aprire, perché abbiamo dei problemi da risolvere tutti assieme. Il parametro Bogdanov è in ogni città e dell'uomo nero, sotto il passamontagna, non si riconosce la nazionalità. Dovremmo anzi invitarla la Serbia, come la Bosnia-Erzegovina e la Croazia. Farle entrare nel club, dargli le poltrone del salotto buono. Perché portano sulla pelle le ferite dei massacri degli anni Novanta e possono spiegare a tutti noi cosa può accadere a giocare con il fuoco dei localismi, delle religioni, delle divisioni etniche. Ben tornata a casa, Serbia.
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