del nostro collaboratore redazionale Stefano Buso
A distanza di quasi dieci anni dai fatti dolorosi dell’11 settembre 2001, dove, per la prima volta, gli USA subirono un attacco terrorista nel “giardino di casa”, sono successe tante cose che hanno mutato radicalmente gli scenari geopolitici del pianeta. Immediatamente dopo l’attacco al World Trade Center di New York, si pensò di fronteggiare la “resistenza” dei talebani afghani con l’impiego congiunto dell’International Security Assistance Force (ISAF), su diretto mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (20 dicembre 2001). La missione ISAF era quella di salvaguardare la capitale Kabul dalle incursioni dei Taleban e da altri pericolosi elementi di destabilizzazione orditi da al Qaeda. Nondimeno, offrire protezione al governo transitorio guidato da Hamid Karzai. Tuttavia, oggi appare sempre più evidente che lo scopo della missione (in apparenza non belligerante) era essenzialmente tenere lontana dall’Occidente la guerra. Insomma, non offrire ai terroristi islamici il pretesto di ripetere in Europa (e in tutto il resto dell’Ovest) quanto avvenuto nella Grande Mela nel 2001 (attentato che causò quasi tremila morti).
In realtà, negli anni a seguire, Spagna e Inghilterra subirono ugualmente sanguinosi attacchi terroristici da parte di fanatici legati ad al Qaeda. A Madrid, l’11 marzo 2004, a tre giorni delle elezioni, furono fatti esplodere degli ordigni in ben quattro treni locali. Il bilancio fu tragico e senza precedenti. A Londra, nel luglio del 2005, una serie di attentati ai servizi pubblici metropolitani portò terrore e panico sulle rive del Tamigi. Questi fatti luttuosi fecero traballare la convinzione che si potesse arginare il conflitto nel solo teatro delle operazioni militari. Del resto, come era possibile illudersi di circoscrivere la strategia del terrore con il solo impiego di mezzi e militari sul campo?
In questi giorni, dopo i fatti di sangue che hanno coinvolto ancora una volta dei nostri militari impegnati in Afghanistan, si sono di nuovo aperte polemiche e proteste, e gli immancabili inviti a lasciare quanto prima quella terra martoriata. Va da sé che la presenza italiana è stata fondamentale, garante di equilibrio e sicurezza. Del resto, una nazione come la nostra che ha peso politico ed economico ha il dovere di legittimare la democrazia in quelle realtà del mondo dove manca.
Giunti a questo punto il dilemma non è tanto avere cognizione sulla data della partenza, né invocare fughe repentine, per sacrosanto rispetto ai nostri militari caduti in Afghanistan che hanno dato prova di coraggio e abnegazione. Altresì è fondamentale capire che essendo oramai in una dimensione globale nessun conflitto (e le sue inevitabili ripercussioni) può essere confinato in un’area delimitata.
La storia offre parecchi esempi in tal senso, soprattutto osservando quanto avvenuto nel XX secolo, epoca tutt’altro che pacifica. Le soluzioni debbono essere sempre politico-diplomatiche per finalizzare risultati concreti senza alcun spargimento di sangue. Spesso e volentieri invece non si percorre la strada del dialogo finendo per restare paludati in attesa di utopiche soluzioni.
Resta infine in evidenza l'eterna questione mediorientale e la convivenza fra popoli di ideologie e religioni differenti, un percorso ancora in salita, nonché focolaio di pericolose tensioni da non sottovalutare. Realisticamente, diventa impossibile ipotizzare il momento in cui verrà suggellata la pace, vera e unica data da perseguire.
In realtà, negli anni a seguire, Spagna e Inghilterra subirono ugualmente sanguinosi attacchi terroristici da parte di fanatici legati ad al Qaeda. A Madrid, l’11 marzo 2004, a tre giorni delle elezioni, furono fatti esplodere degli ordigni in ben quattro treni locali. Il bilancio fu tragico e senza precedenti. A Londra, nel luglio del 2005, una serie di attentati ai servizi pubblici metropolitani portò terrore e panico sulle rive del Tamigi. Questi fatti luttuosi fecero traballare la convinzione che si potesse arginare il conflitto nel solo teatro delle operazioni militari. Del resto, come era possibile illudersi di circoscrivere la strategia del terrore con il solo impiego di mezzi e militari sul campo?
In questi giorni, dopo i fatti di sangue che hanno coinvolto ancora una volta dei nostri militari impegnati in Afghanistan, si sono di nuovo aperte polemiche e proteste, e gli immancabili inviti a lasciare quanto prima quella terra martoriata. Va da sé che la presenza italiana è stata fondamentale, garante di equilibrio e sicurezza. Del resto, una nazione come la nostra che ha peso politico ed economico ha il dovere di legittimare la democrazia in quelle realtà del mondo dove manca.
Giunti a questo punto il dilemma non è tanto avere cognizione sulla data della partenza, né invocare fughe repentine, per sacrosanto rispetto ai nostri militari caduti in Afghanistan che hanno dato prova di coraggio e abnegazione. Altresì è fondamentale capire che essendo oramai in una dimensione globale nessun conflitto (e le sue inevitabili ripercussioni) può essere confinato in un’area delimitata.
La storia offre parecchi esempi in tal senso, soprattutto osservando quanto avvenuto nel XX secolo, epoca tutt’altro che pacifica. Le soluzioni debbono essere sempre politico-diplomatiche per finalizzare risultati concreti senza alcun spargimento di sangue. Spesso e volentieri invece non si percorre la strada del dialogo finendo per restare paludati in attesa di utopiche soluzioni.
Resta infine in evidenza l'eterna questione mediorientale e la convivenza fra popoli di ideologie e religioni differenti, un percorso ancora in salita, nonché focolaio di pericolose tensioni da non sottovalutare. Realisticamente, diventa impossibile ipotizzare il momento in cui verrà suggellata la pace, vera e unica data da perseguire.
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