del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio
“Sì, domenica prossima potrà celebrare una messa alle 7.00 di mattina!” mi fa deciso il parroco. Delle cinque messe che si celebreranno nella grande e bella chiesa del nostro paese la prima è del missionario. Ma resta il dubbio se sia un privilegio... Sarà la bella occasione di salutare la gente di paese, appena sveglia. Non il popolo di Dio, piuttosto un simpatico drappello di pensionati mattinieri. Può sorgere, forse, l’interrogativo se un missionario in una parrocchia normale sia una lampada sopra o sotto il moggio. Se è colui che rivela l’anima della Chiesa, il suo respiro universale, oltre che la dinamica delle sue origini, l’invio in missione... Senz’altro, è sempre un po’ arduo spiegare la mia missione. Quella di accompagnare la fede di comunità di emigranti italiani all’estero. Un popolo, forse, ormai dimenticato. Quello stesso che, pur sognando la propria terra giorno e notte, quando ritorna sui propri passi, al proprio paese, sembra cambiare nazionalità. “Hai visto sono tornati gli inglesi?” si sente esclamare. “Sono arrivati gli argentini... i francesi... i tedeschi...” La terra dove il destino li ha portati diventa in patria un’amara etichetta di estraneità.
Essere missionario per me è essere pastore per questi uomini e queste donne che hanno lasciato la loro terra. La nostra. Un popolo che emigrava altrove per cercare da altri pane e solidarietà. Ed è sostenere la loro fiducia in un Dio che li ha presi per mano, accompagnare la speranza e il coraggio che li hanno fatti vivere. È, infine, incoraggiare i gesti di fraternità e di alleanza con quanti li hanno accolti. Così, si incontra ancora oggi il Dio di Abramo: il Dio del cammino, dell’apertura di orizzonte della mente e del cuore.
Essere missionario è per me professare in terra straniera che Dio è padre di ogni essere umano. Ma è anche ricordare ad ogni cristiano che chi ci dà vita è il Signore risorto, vivente ancora tra noi quando il suo amore ci unisce. Non dimenticando la sua verità più grande: il saper condividere insieme. Per secoli sarà il segno più vero della presenza del Maestro fra i suoi discepoli, dopo averci lasciato quella sera di Emmaus. Condividere, così, ancora oggi, con chi emigra e accoglie il valore di una strada di umanità fatta assieme. Un rapporto più umano e più giusto in tutto ciò che dobbiamo vivere insieme. Essere missionario, in fondo, è un servizio di comunione tra uomini e culture differenti. Pensando a quanti uomini e donne di buona volontà costruiscono ovunque il regno di Dio. Perché ovunque i ciechi vedono, gli storpi camminano, gli uomini ritrovano il senso della solidarietà e i migranti la loro dignità umana è qualcosa di nuovo che nasce. È l’annuncio di una Buona Novella.
Alle 7.00 di mattina, alla prima messa, trovo importante ricordare tutto questo al nostro minuscolo gregge. Oltre al fatto che siamo un popolo di santi, di mercanti, di artisti e di emigranti. Aprire, allora, lo sguardo e il cuore per condividere la nostra vita con chi viene da lontano è costruire insieme il domani di Dio. Da sempre, il suo nome è fratellanza.
Essere missionario per me è essere pastore per questi uomini e queste donne che hanno lasciato la loro terra. La nostra. Un popolo che emigrava altrove per cercare da altri pane e solidarietà. Ed è sostenere la loro fiducia in un Dio che li ha presi per mano, accompagnare la speranza e il coraggio che li hanno fatti vivere. È, infine, incoraggiare i gesti di fraternità e di alleanza con quanti li hanno accolti. Così, si incontra ancora oggi il Dio di Abramo: il Dio del cammino, dell’apertura di orizzonte della mente e del cuore.
Essere missionario è per me professare in terra straniera che Dio è padre di ogni essere umano. Ma è anche ricordare ad ogni cristiano che chi ci dà vita è il Signore risorto, vivente ancora tra noi quando il suo amore ci unisce. Non dimenticando la sua verità più grande: il saper condividere insieme. Per secoli sarà il segno più vero della presenza del Maestro fra i suoi discepoli, dopo averci lasciato quella sera di Emmaus. Condividere, così, ancora oggi, con chi emigra e accoglie il valore di una strada di umanità fatta assieme. Un rapporto più umano e più giusto in tutto ciò che dobbiamo vivere insieme. Essere missionario, in fondo, è un servizio di comunione tra uomini e culture differenti. Pensando a quanti uomini e donne di buona volontà costruiscono ovunque il regno di Dio. Perché ovunque i ciechi vedono, gli storpi camminano, gli uomini ritrovano il senso della solidarietà e i migranti la loro dignità umana è qualcosa di nuovo che nasce. È l’annuncio di una Buona Novella.
Alle 7.00 di mattina, alla prima messa, trovo importante ricordare tutto questo al nostro minuscolo gregge. Oltre al fatto che siamo un popolo di santi, di mercanti, di artisti e di emigranti. Aprire, allora, lo sguardo e il cuore per condividere la nostra vita con chi viene da lontano è costruire insieme il domani di Dio. Da sempre, il suo nome è fratellanza.
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.