lunedì, novembre 01, 2010
del nostro collaboratore Bartolo Salone

Forse non tutti sanno che Halloween, nella sua etimologia, rinvia alla solennità cattolica di Ognissanti. “All Hallows Eve”, dalla cui contrazione deriva appunto “Halloween”, in inglese vuol dire “Vigilia di Tutti i santi”. Quando venne istituita da papa Bonifacio IV nel lontano 610, la solennità di Tutti i santi cadeva il 13 maggio. Si deve a papa Gregorio III (morto nel 741) la decisione di spostare questa solennità l’1 novembre, cioè nel giorno del “Samhain”, l’antico Capodanno celtico (giorno in cui si credeva che il velo che separava il mondo dei vivi da quello dei morti si assottigliasse, consentendo ai morti di far capolino nella terra dei vivi), in modo da riempire di significato cristiano l’antica usanza celtica. Ecco perché il Samhain celtico da quel momento divenne Halloween, cioè la vigilia di Tutti i santi.

Nella sua pedagogia il Cristianesimo non si propone, infatti, di fare tabula rasa del passato (così fanno invece le correnti rivoluzionarie di ogni tempo, dominate da una logica esclusivista di ferreo aut aut), ma al contrario assume simboli e usanze del passato per riempirle di un nuovo e più compiuto significato. Cristo stesso, del resto, ha dichiarato di non essere venuto per distruggere, ma per portare a compimento. Il Cristianesimo svolge da sempre un’opera di continua purificazione non solo dei cuori, ma anche dei costumi. E l’antichità pagana, purtroppo, per quanto riguarda la concezione della morte e della vita dopo la morte, presentava delle “scorie” che era compito del Cristianesimo eliminare. Scorie che, a causa del processo di secolarizzazione, riemergono e che sono grottescamente rappresentate dal moderno Halloween: in una società in cui ciò che conta è solo il benessere materiale, si torna a guardare con timore alla morte quale momento in cui saremo privati d’un tratto di quelle effimere certezze sulle quali abbiamo riposto la nostra fiducia. La morte come annichilimento completo dell’uomo non può non far paura; paura alla quale si tenta di porre rimedio buttandosi disperatamente nei c. d. “piaceri della vita” (sesso, cibo, feste e quant’altro). Halloween è, invero, l’esaltazione del materialismo edonistico in cui sta miseramente sprofondando questa nostra umanità, che pensa di poter allontanare il timore della morte (a cui solo il Vangelo con la sua fede nella risurrezione dei morti e nella vita eterna può dare davvero risposta) a suon di petardi e a mezzo di ridicole mascherate.
In piena coerenza con queste premesse, il modello di uomo proposto dall’odierna società del benessere non è più – come per il Cristianesimo – il santo, ma il gaudente. Riscoprire il significato genuino della festa di Tutti i santi, al di là delle rappresentazioni tragicomiche di un Halloween tutto consumistico, significa dunque tornare alle sorgenti della saggezza evangelica e ad una autentica antropologia cristiana.
Occorre prima di tutto considerare che i Santi sono fatti oggetto di venerazione non per sé stessi, ma per la capacità che il loro esempio di vita ha di infervorare il cuore dei fedeli, elevandolo alla grandezza di Cristo. I Santi sono delle pagine viventi di Vangelo, la prova più tangibile ed evidente che Cristo si realizza nella storia attraverso la Chiesa. I Santi si sono nutriti, infatti, al seno della madre Chiesa, segno che la Chiesa possiede realmente quei mezzi spirituali atti a condurre gli uomini alla salvezza. Lo ricorda efficacemente quel gran convertito che fu Giovanni Papini, ne “La pietra infernale”: “Tra le Chiese innumerevoli che si dicono fedeli interpreti di Cristo, scelsi quella cattolica, sia perché essa rappresenta veramente il tronco maestro dell’albero piantato da Gesù, ma anche perché, a dispetto delle debolezze e degli errori umani di tanti suoi figli, essa è quella, a parer mio, che ha offerto all’uomo le condizioni più perfette per una integrale sublimazione di tutto l’esser suo e perché in essa soltanto mi parve che fiorisse abbondante il tipo di eroe che ritengo il più alto: il Santo”.
I santi, dunque, con la loro vita non nascondono affatto la luce di Cristo (come ritengono molti dei nostri fratelli separati), ma ne manifestano al contrario tutto lo splendore. Essi infatti non brillano di luce propria, ma di luce riflessa. Il Modello è sempre Cristo, il quale però si declina nelle sue innumerevoli flessioni nella vita dei santi. Per cui una madre con dei figli sciagurati e un marito violento troverà in una santa Rita l’esempio cristiano cui ispirarsi, un giovane lo troverà in un Piergiorgio Frassati, un sacerdote diocesano lo troverà nel santo curato d’Ars e così via: c’è un santo per ogni condizione sociale, stato di vita e situazione umana. La devozione nasce proprio da questo senso di affinità esistenziale che può legare un fedele ad una particolare figura di santo. Non c’è nulla di male o di idolatrico in questo, così come nulla di idolatrico vi sarebbe nello scorgere nelle realtà naturali la bellezza del Creatore: i santi sono, più dei mari, più dei monti, più del sole, più della luna, dei veri capolavori di Dio. L’idolatria nasce piuttosto quando la devozione dei santi prende il posto della vita sacramentale (per cui, ad esempio, non si perde occasione di partecipare alla processione di questo o quel santo, ma poi non si va a messa la domenica) oppure quando si tributa ai santi un culto che non si addice alla loro condizione creaturale. La Chiesa afferma da sempre che ai santi si deve un culto di dulia (ossia di venerazione) e non di latria (ossia di adorazione), il quale va offerto a Dio solo. Ma è idolatria anche il contrario, ossia il tributare a Cristo un culto di dulia, di semplice venerazione: è questo l’errore in cui incorrono molti uomini di oggi i quali vedono in Cristo soltanto un uomo nobile, una figura eccezionale che merita rispetto, ma non il Figlio di Dio.
Il culto dei santi, però, nell’ambito del cattolicesimo, non si fonda su un semplice senso di ammirazione per uomini che nella loro vita sono riusciti ad incarnare in maniera sublime l’ideale cristiano, ma ha radici ben più profonde, essendo l’espressione di una verità di fede molto importante, anche se troppo spesso dimenticata, vale a dire la “comunione dei santi”. L’espressione “comunione dei santi” la si ritrova per la prima volta nell’antico credo apostolico (le cui prime testimonianze risalgono al II sec. d. C.) e sta a significare la convinzione, attestata dalle Sacre Scritture, per la quale in Cristo tutti i fedeli, vivi e defunti, formano un solo Corpo. Ciò implica una solidarietà tra tutti i credenti, in virtù della quale il bene compiuto da uno giova a tutto il Corpo. Questo vale anche per quella preziosissima forma di bene spirituale che è la preghiera. Siccome la preghiera degli uni giova anche agli altri, noi vivi possiamo pregare per i nostri defunti, affinché giungano al più presto alla beata visione di Dio, e così anche i defunti che si trovano già al cospetto di Dio (cioè i santi) possono intercedere per noi ancora pellegrini nel mondo. Proprio l’intimo legame sussistente tra il culto dei santi e la verità della “comunione dei santi” spiega perché storicamente la Commemorazione dei fedeli defunti si sia radicata il 2 novembre, immediatamente dopo la festa di Ognissanti. Ai nostri defunti possiamo allora offrire, in virtù di quella comunione spirituale che ci lega a loro, i nostri poveri beni spirituali, le nostre piccole opere buone, e, ove questo non fosse sufficiente, gli immensi meriti accumulati dai santi del cielo, di cui possiamo invocare l’intercessione.
Possa la preghiera ai nostri cari defunti e il ricordo dei santi in Paradiso aiutarci a comprendere in questi giorni che la nostra esistenza è tutta volta alla vita vera, quella “che più non muore”, lasciando ad altri quelle oscure suggestioni dal gusto necrofilo che Halloween porta con sé.

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