mercoledì, gennaio 12, 2011
Algeria e Tunisia in fiamme a seguito delle violente proteste: migliaia di giovani in piazza contro il carovita, simbolo di mancanza di libertà.

di Christian Elia

PeaceReporter - Samir Kassir è morto il 2 giugno 2005. Libanese, come tanti nel Paese dei Cedri, obliquo. Molto più di un giornalista. Anima inquieta, di quelle che fanno più paura di guerriglieri e politici. La sua vita diventata testimonianza, come un Pasolini o un Gramsci, di un altro e identico Mediterraneo. La sua auto è stata fatta esplodere, le sue idee non sono bruciate con il rottame. Un libro, tra le altre cose. L'infelicità araba, edito in Italia da Einaudi. Vengono in mente le sue parole, in questi giorni, guardando le immagini dalla Tunisia e dall'Algeria. Migliaia di giovani, in strada, le pietre contro i fucili. Il bilancio delle ultime ore parla di almeno cinquanta morti in Tunisia, almeno cinque in Algeria. Le rivolte del pane, le chiamano. E hanno ragione.
Li chiamano hittisti, i reggitori di muri. Orde di giovani senza futuro, nei paesi del Maghreb, che hanno un'età media molto bassa. Un bacino inesauribile di reclusi.

Kassir lo aveva capito, partendo dal Libano per allargare il suo discorso al mondo arabo: una crisi di asfissia. Società che, per anni, hanno lavorato a eliminare ogni pur minimo spazio di libertà. Quella di parlare, di scrivere, di militare. Partiti, associazioni, ong, sindacati, giornali: asserviti o silenziati. Al potere comitati d'affari, oligarchie che possono fare capo al Ben Alì o al Bouteflika di turno, ma che hanno eroso ogni pertugio di libero pensiero allo stesso modo. Ecco che questi giovani, laureati o meno, finiscono nella pressa: nessun lavoro, nessuna speranza, nessuna possibilità. Se non appartengono al giro giusto, certo.

I media generalisti, che hanno dato grande risalto alle manifestazioni di questi giorni, avevano taciuto di altre rivolte del pane, in Egitto e Marocco, ancora Algeria e Tunisia. La Libia meno, perché il regime del Colonnello Gheddafi ha sempre dovuto gestire una popolazione meno numerosa, utilizzando meglio il denaro affluito dopo la fine dell'embargo internazionale, e scaricando la rabbia sociale sui migranti. Come ha fatto, per anni, il Marocco nei confronti dei saharawi, il popolo del Sahara Occidentale occupato.

Ecco che l'aumento dei prezzi dei generi di prima necessità ha l'effetto di una molotov gettata in un pagliaio. Sarebbe un errore pensare che sia solo quello, sarebbe un errore non pensare che la rabbia è scatenata dall'idea che ti tolgono anche l'ultimo sospiro: la sopravvivenza. Per anni, in tutti questi paesi, l'emigrazione è stata la valvola di sfogo di questi giovani derubati delle ricchezze del loro Paese e del loro futuro. Oggi, tranne la frontiera con la Turchia (in via di chiusura), tutte le frontiere della Fortezza Europa sono sigillate. Ecco che la claustrofobia diventa incontrollabile.

Il pericolo delle infiltrazioni fondamentaliste, si predica in questi giorni. Certo, esiste, come in tutti i luoghi dove la moschea è diventata l'unico posto dove un ragazzo si sente libero, l'unico posto dove un padre o una madre di famiglia trova un pasto caldo. Solo che - ancora con Kassir - è l'altra faccia della stessa medaglia. E' potere, è denaro, la lotta armata, anche quando è in nome di Allah. La rabbia, invece, è sempre per fame.

Si dice Tunisia, Algeria. Ma si potrebbe leggere Londra e Roma, Atene e Palestina. I fondamentalisti come gli agenti infiltrati. Gli appelli alla calma, a mantenere l'ordine nella protesta, mentre le stesse persone ti tolgono tutti gli spazi democratici per far sentire la tua voce.
Come dimostra l'ultimo manifesto dei ragazzi di Gaza. Che mandano al diavolo tutti, partiti e governi. La rabbia, la mancanza d'aria, il futuro impegnato come una cambiale che nessuno potrà mai pagare. Le chiamano rivolte del pane è hanno ragione. Perché la fame è senza confini.


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