mercoledì, febbraio 16, 2011
Ha ancora rilievo argomentare di digiuno? E di preciso, di cosa si tratta? Perché talvolta viene confuso con la parola ‘dieta‘, che significa invece “tenore di vita” o “regime alimentare”? Nell’opera “Il Digiuno Antico”, edita dalle Paoline, il digiuno è documentato e spiegato nel suo significato soggettivo e sociale.

del nostro Stefano Buso

Se l’alba del digiuno rimane incerta, è assodato invece che in alcune religioni è prassi usuale, vissuta non come tragica ricorrenza, bensì quale pratica spontanea. In particolare, nella religione cristiana il significato di “privazione del cibo” ha perso con il passare dei secoli la sua linfa embrionale. Dapprima il distacco dal nutrimento non era infatti percepito come un patimento per mortificare il corpo, bensì quale status ideale che permetteva all’anima d’esser coinvolta in esperienze altrimenti incomprensibili. Altro aspetto da enfatizzare nel digiuno religioso è la non parentela con dottrine estreme che impongono il rifiuto assoluto dei piaceri terreni (cibo e vino inclusi) per raggiungere lo stato chimerico della sublimazione. Del resto, chi nel 2011 aspirerebbe alla vita claustrale di un anacoreta, trascorrendo giornate intere nella contemplazione, vivendo di umori, preghiere e intime riflessioni? Vivendo una dimensione del genere il significato degli alimenti (e non solo) perderebbe valore, dignità e priorità.
L’ipotesi di rinuncia da sempre è foriera di un pesante fardello. Un “triste” sostantivo che fa rima con colpa, punizione, espiazione, castigo et similia. Questi sono i limiti evidenti che rendono il proposito di digiuno religioso avulso dal lessico quotidiano. Negli ultimi decenni cibo, piaceri di gola e problematiche derivanti dal suo abuso sono al centro dell’attenzione dei media. Da un lato sussiste una palese propensione a promuovere il cibo sano e di qualità. Dall’altro si cerca di correre ai ripari contro i drammatici risvolti causati dal suo eccesso. Anche la neuropsichiatria è coinvolta nei problemi derivati da un’alimentazione scorretta e deviata, basti pensare alla bulimia o all’anoressia. Patologie tormentate che impongono spesso la prescrizione di terapie farmacologiche e psicologiche, anche associate.
Ritornando all’opera, emerge tra le righe che l’essenza del digiuno per i credenti sta nell’orientamento cristologico, nella sua capacità quindi d’essere veicolo di trofica positività in una società sempre più lontana dai bisogni interiori dell’uomo. “Il Digiuno nella Chiesa antica” è un itinerario di riflessioni di brillante spessore culturale che fanno luce sul digiuno spirituale, da decenni dipinto con aggettivazioni negative. Il libro svela che non è affatto così, attraverso eloquenti analisi e deduzioni originali che rendono l’approccio al tema degno di approfondimento.

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