domenica, marzo 06, 2011
Scontri nell'ovest e nel sud, migliaia di profughi: il piccolo paradiso africano precipita nel baratro di una nuova guerra.

PeaceReporter - La guerra c'è ma pochi se ne sono accorti, oscurata dal fragore delle rivolte nel Maghreb. Lo stallo politico in Costa d'Avorio si è trasformato in crisi conclamata. Cinquemila persone al giorno attraversano il confine con la Liberia; ormai sono 70 mila, i disperati in territorio liberiano, ai quali vanno aggiunti oltre 40 mila sfollati all'interno dei confini. In migliaia fuggono da un conflitto che è alle porte, da una crisi cominciata a fine novembre, con il rifiuto del presidente Laurent Gbagbo di riconoscere la sconfitta elettorale e cedere il posto allo sfidante Alassane Ouattara, che di fatto vive prigioniero in un albergo di Abidjan, protetto da Caschi Blu e dai suoi pretoriani. Da allora, il Paese è tornato a dividersi lungo la faglia nord-sud, con due governi, due presidenti e due diversi apparati di sicurezza, come ai tempi della guerra civile del 2002. Le elezioni che dovevano riportare il Paese alla normalità, hanno riacceso la miccia del conflitto. Quello che sta accadendo davanti agli attoniti osservatori internazionali, è una riedizione di quella sanguinosa guerra civile. Le dinamiche sono le stesse. Nel nord, sono tornate padrone le Forces Nouvelles, che appoggiano Ouattara, che hanno lanciato un'offesiva a ovest. Il 25 febbraio, i ribelli hanno conquistato il piccolo villaggio di Zouan-Hounien, sottraendolo al controllo delle truppe governative; il giorno prima, a Teupleu, l'esercito aveva perso 80 soldati. Si è combattuto anche nella capitale politica Yamoussoukro, bastione dei sostenitori di Gbagbo ma situata a ridosso del confine con il nord in mano alle forze leali a Ouattara.


Ma il vero simbolo del disastro è Abidjan, la capitale economica, e soprattutto i suoi distretti settentrionali, di Abobo e Anyama, dove si stima viva un milione e mezzo di persone, in buona parte schierate con Ouattara. Da mesi, paramilitari dei Giovani Patrioti, guidati dal ministro della Gioventù Charles Blè Goudé, insieme a elementi della Guardia Repubblicana e dei famigerati Cecos, davano la caccia ai sostenitori di Ouattara, con uccisioni sommarie, raid notturni, rapimenti: ora sono comparsi i Commandos Invisibles, unità scelte delle Forces Nouvelles arrivate per difendere gli ivoriani non etnici. Con il loro arrivo, il conflitto si è trasformato in guerriglia; nell'ultima settimana le forze governative hanno registrato pesanti perdite. Miliziani sono penetrati nella zona sud della capitale, nel distretto di Koumassi, dove testimoni hanno riferito di furiosi combattimenti. Il clima, in città, è surreale: i civili vivono barricati in casa, senza più cibo, ma sapendo che uscire è diventato troppo pericoloso; la moschea è stata assaltata, i negozi, soprattutto quelli degli stranieri, saccheggiati. Per strada si vedono cadaveri abbandonati che nessuno osa rimuovere per paura di essere freddati per strada. A Yapougon, domenica pomeriggio, i Giovani Patrioti hanno dato fuoco ad uno straniero che non parlava francese, ritenendolo un membro delle Forces Nouvelles. Gli uomini di Gbagbo hanno assaltato una moschea, mentre tengono prigioniere circa 60 famiglie, in prevalenza donne e bambini, in una chiesa di Abidjan, senza cibo e senza acqua. I trecento morti, che le agenzie continuano a riportare come bilancio di tre mesi di violenza, sono molti di più, anche se nessuno al momento sa quanti siano davvero.


Gbagbo si sta giocando il tutto per tutto: è rimasto isolato politicamente, diplomaticamente e soprattutto economicamente. La Banca Centrale dell'Ecowas, con sede a Dakar, gli ha chiuso i rubinetti e minacciato di sanzioni le banche private che avessero continuato ad operare nel Paese; il ban sulle esportazioni di cacao, chiesto da Ouattara, ha neutralizzato il motore dell'economia, il porto di Abidjan è fermo. Ma il leader golpista non cede. Cè il rischio che, con un'economia al collasso e incapace ormai di pagare l'esercito che lo protegge, possa dar fuoco alle polveri e scatenare un conflitto su larga scala. Proprio alla luce di questo sospetto, preoccupa il fatto che il Paese sia ormai isolato, da un punto di vista mediatico: da mercoledì, Bbc e Radio France International non trasmettono più. Fonti dell'opposizione spiegano che, a manomettere i ripetitori, tutti situati nel distretto di Abobo, sono stati i Giovani Patrioti; sabato notte è stata attaccata la sede della televisione di stato, Radiodiffusion-Television Ivorienne, accusata di trasmettere "programmi che dividono e pericolosi". Negli ultimi giorni, nove quotidiani vicini all'opposizione hanno sospeso le pubblicazioni, spiegando che i loro giornalisti "sono costantemente minacciati di morte". Dal 28 febbraio, il nord e l'ovest sono senza elettricità. Fonti del governo di Gbagbo spiegano che si tratta di un taglio imposto da ragioni techiche, ma nessuno ci crede: è un altro mezzo per fiaccare una popolazione ostile. Non funzionano più le macchine per filtrare l'acqua e anche gli ospedali sono in tilt; solo domenica, a Bouaké, sono morti due neonati prematuri perché le incubatrici non funzionavano. In tutto questo, a sorprendere davvero è la paralisi dell'Unione Africana, che da mesi cerca inutilmente di trovare una via d'uscita a un conflitto che è già scoppiato anche se si fa finta di non vederlo. La Costa d'Avorio è sull'orlo del baratro mentre la diplomazia annaspa.

Alberto Tundo


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