Si dibatte su questo aspetto che, fuori dai distinguo inquinati dalle ideologie, appare semplicemente di buon senso in uno stato di diritto, tralasciando, invece, di valorizzare gli altri articoli della legge, che non solo non sono illiberali, ma aprono al dialogo i soggetti coinvolti. In primis il paziente, che vede finalmente tutelato in maniera formale il suo diritto al consenso informato e all’alleanza terapeutica con il medico, nonché il suo diritto di rifiutare le terapie. Un diritto che permette a una persona di scegliere un’opzione terapeutica piuttosto che un’altra oppure di rifiutare certe terapie, per motivi che la legge non va certo a sindacare, purché il medico stringa quell’alleanza terapeutica che permetta una scelta attuale, consapevole, informata e, nella misura del possibile, condivisa. Condizioni che per il futuro, di per sé, non si possono dare. Se, allora, ricollochiamo il fulcro della normativa nella centralità del vero consenso informato, capiamo perché per le decisioni che riguardano la condizione di incoscienza il ddl sia più garantista.
Ma anche il medico è chiamato ad aprirsi al dialogo. Innanzitutto con il paziente, e poi con il fiduciario, in caso di pazienti incapaci di intendere e di volere. Qui nessuno ha carta bianca, ma ognuno ha un ruolo, compreso il paziente incapace. Nel confronto prudenziale delle diverse posizioni, si troverà la soluzione migliore. Una scelta a cui contribuisce il paziente attraverso le Dat, il cui contenuto non va assolutizzato ma attualizzato; il fiduciario, che è vincolato al contenuto della Dat e al confronto con i sanitari; il medico, che deve necessariamente confrontarsi con il testo delle Dat, con il fiduciario e con la sua professionalità, esercitata in scienza e coscienza. Un percorso più lungo e faticoso rispetto a quello che vorrebbe prendere alla lettera il contenuto della Dat e applicarle tout court, senza inutili complicazioni e responsabilità.
Ilaria Nava
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