martedì, marzo 22, 2011
Abbiamo avuto occasione di recensire il libro “La vita non è un parcheggio” - edito da Edizioni Paoline - di suor Roberta Vinerba, suora francescana diocesana della diocesi di Perugia. Suor Vinerba, oltre ad essere responsabile della scuola di dottrina sociale “Circolo Giorgio La Pira” di Perugia, è docente di teologia morale, catechista di adulti e da anni è impegnata nell’evangelizzazione di giovani e adolescenti. Oggi abbiamo il piacere di rivolgerle alcune domande.

della nostra redattrice Monica Cardarelli

D. Come può notare dal titolo di questa intervista, mi sono permessa simpaticamente di trovare un sottotitolo esplicativo al suo libro, poiché mi pare che tutto il suo lavoro verta proprio su questo, sull’importanza cioè di trovare e vivere in pienezza la propria vocazione di vita. Senza questa scelta finale e definitiva la vita di ciascuno di noi resta ‘appesa’ e non ha il senso che dovrebbe avere. È così?

R. Si, esattamente. La nostra libertà non può essere paragonata ad una palude nella quale l’acqua ristagna e, di fatto, non serve a niente. La libertà deve assumere la forma di un fiume con argini ben definiti, di modo che l’acqua, così imbrigliata, possa produrre energia, cioè vita. Voglio dire che solo una scelta definitiva ci permette di dispiegare al meglio le nostre energie morali e spirituali ed assumere una reale identità. Solo nel per-sempre sappiamo chi siamo nel tempo, solo scegliere fidandosi del futuro, facendo il salto della fede ci qualifica in una ben precisa identità.

D . Il suo libro è estremamente interessante e accattivante anche per un pubblico giovane. Ma lei non si rivolge solo ai giovani in queste pagine. Ce n’è un po’ per tutti i gusti e per tutte le età. La provvisorietà della scelta di vita, soprattutto nella società attuale, è dunque qualcosa che riguarda tutti noi indipendentemente dalla fascia di età a cui si appartiene?

R. Il libro è scritto forse più per gli adulti che i giovani. Certamente il target di riferimento sono i giovani dai 20 anni in su, i trentenni sono perfetti! Ma ogni riga si riferisce anche al mondo degli adulti che per primi sono fermi, rinunciatari nell’educazione dei figli perché hanno abdicato al compito proprio dell’adulto che consiste nell’aderire al principio di realtà. Principio che prevede la vita come una freccia scoccata in avanti e non come una stazione nella quale sostare, fare salotto, dimentichi che il tempo passa. Invece, non si può inventare a proprio piacimento una stagione della vita che non sia, invece, quella reale. Bambini rincretiniti che si sentono onnipotenti, adulti che tornano all’adolescenza e rincorrono l’elisir della giovinezza per scappare dal nulla che li divora.

D. Nelle pagine introduttive lei scrive: “Così buona parte del mio tempo la dedico a fare coraggio, a infondere speranza e ad annunciare la vita come vocazione, la vita cioè come un capolavoro da compiere a partire dal sì che Dio ha pronunciato nei nostri riguardi quando ci ha creati. Lo annuncio perché io per prima ho scoperto che la felicità consiste nel legame, nel diventare qualcuno, e non nel restare nel limbo dell’infinitezza vocazionale”. Sono parole molto chiare e decise e la cosa che attira è il fatto che lei per prima abbia sperimentato nella sua vita ciò che afferma, è partita cioè dalla sua testimonianza. Ce ne vuole parlare?

R. Sono stata adolescente negli anni ‘70, nella coda del ’68: ho imparato così la vita come ribellione e ho abbracciato quell’idea che nella vita non ci sono regole e che la libertà è assoluta e serve per sperimentare quanto più si può. Di me dicevo che non ero “immorale”, ma “amorale”, ed avevo ragione nel senso che non riconoscevo un dato creaturale fisso dal quale partire per elaborare una qualsivoglia morale. Sono stata giovane negli anni ’80, quelli della “Milano da bere” e mi è piaciuto l’edonismo di quegli anni. Metti tutto insieme, politica sinistrorsa, ideologia radicale, edonismo e nichilismo di fine XX secolo, e ne viene fuori una perfetta idiota! Voglio dire che in questo nulla io mi sono persa e ritrovata solo attraverso la fede nel Crocifisso, unico punto fermo della storia e l’unico, davvero, capace di dire a me chi fossi.

D. Lei insiste molto sul fatto che alla base di tutto, compresa la felicità e la libertà, c’è l’incontro con l’altro, il fare spazio, l’ascolto e l’accoglienza, il legame per sempre e la scelta di vita irreversibile. Sicuramente sono alla base di ogni vocazione cristiana e non, ma quanto può essere difficile oggi, sia per un giovane che per un adulto, vivere queste dimensioni quotidianamente? E quanto e in che modo può essere di aiuto la Chiesa e gli uomini e le donne di Chiesa come lei?

R. Credo, a costo di essere scambiata per presuntuosa, che oggi solo la Chiesa ha parole credibili, che solo il Vangelo possa costituire la possibilità di diventare uomini e donne capaci di vivere bene. La categoria della relazione è scritta in ogni uomo creato a immagine della Trinità, bisogna fare un lavoro di scavo, aiutare le coscienze a recuperare quello che già c’è ma che è seppellito. Credo molto nella vita come bellezza: da un lato c’è bisogno di testimoni che dicano la Bellezza con la propria vita, dall’altro anche di quel formidabile lavoro che fa Benedetto XVI che consiste nel dare fiducia alla ragione umana; bisogna, di nuovo, evangelizzare la ragione.

D. Leggendo il libro mi ha colpito molto il passaggio in cui racconta del momento di smarrimento e di paura che ha provato prima della professione dei voti perpetui e di come ha trovato pace al santuario della Verna, laddove Francesco ricevette le stimmate. In modo particolare rimango positivamente impressionata dall’uso che fa di parole forti e chiare, nette e decise per parlare di alcune situazioni. Spesso, infatti, lei parla di “aver vinto la morte dell’indefinitezza, in ultimo, nell’aver vinto quel vivere-per-me che è la cifra di ogni avversione al dono definitivo di sé”. Ma anche “quell’anticipo del morire che è un matrimonio, una consacrazione, si sperimenta la vittoria sulla morte e sull’angoscia del finire.” Ci vuole spiegare meglio?

R. Si è felici quando si smette (o almeno si desidera di smettere e per questo ci si mette in cammino) di vivere-per-se-stessi. Questo modo di vivere è la fonte di tutte le infelicità. Fare di sé un dono è lo spazio della gioia, ma va da sé che questo dono può essere solo totale e definitivo, ovvero di tutto me e per sempre. Essendo la persona un essere spirituale e non un oggetto, il dono può essere solo irrevocabile e totale. Nessuno sano di mente sposerebbe qualcuno che dicesse “ti sposo per un po’, finché va, lasciandomi degli spazi personali di realizzazione”! Detta così fa rabbrividire, purtroppo questo è il modo con il quale la maggior parte delle persone si avvicina al matrimonio, dichiarandone in anticipo il fallimento. L’uomo è felice quando scopre la propria nobiltà del fare di sé un dono per l’altro, la società ci dice il contrario: “inganna gli altri come gli altri ingannano te”. Questo stile di vita però, apre alla solitudine e all’insicurezza, in ultimo la fallimento esistenziale. Certo, apparentemente un matrimonio può sembrare un sacrificio, di fatto lo è, in questo consiste l’anticipo di morte, ma il pensiero che fuori dal matrimonio si possa essere liberi di fare tutto, di passare da un rapporto ad un altro, alla fine produce vecchi soli e patetici.

D. Al termine dell’excursus che propone al lettore in questo libro, veniamo a scoprire la ‘scelta irreversibile’ e il suo rapporto con la libertà personale. Ma, come in effetti è realmente, “la scelta irreversibile è una croce, bisogna assumerne i criteri fino in fondo.” E “Il ‘restare’ che assume la forma del martirio ritengo sia, oggi, una stupefacente testimonianza della vera libertà umana; obbedendo contro ogni evidenza al dono che si è fatto inizialmente, si scoprono energie morali e spirituali, inimmaginate.” Non si tratta solo di responsabilità nei confronti degli impegni presi e nei confronti dell’altro, c’è qualcosa di più in queste parole, vero?

R. La responsabilità è la risposta che diamo alla presenza dell’altro. L’altro che chiede con il suo stesso esistere di non essere tradito. Inoltre, in questo restare al nostro posto si scopre come disponiamo di forze morali che non avremmo creduto di disporre, si vive una reale configurazione a Cristo Crocifisso che dona la sua grazia per poter fare di una situazione esistenziale, magari subita e non voluta, un magnifico luogo attivo di testimonianza e di apostolato. Si scopre allora una fecondità eccezionale, la propria vita come fonte di vita per altri. Amici lasciati dal coniuge che restano fedeli al sacramento sono per me una testimonianza incomparabile della validità di questo sacramento, proprio oggi che sembra essere colpito da tutte le parti. Essi scoprono una vocazione nella vocazione, vivendo la fedeltà nonostante tutto, diventando veri benefattori di questa generazione.

D. Felicità, libertà, sofferenza, egoismo, legami, responsabilità, dono… quanto e come oggi nella sua vita di suora francescana si trova a testimoniare e a parlare di queste realtà ai giovani che incontra?

R. So parlare solo di questo… del resto, questo è il Vangelo!

Ringraziamo suor Roberta Vinerba per queste parole e per tutte quelle contenute nel suo libro, augurandoci di poterla rincontrare nuovamente su queste pagine.

Sono presenti 0 commenti

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa