del nostro redattore Stefano Buso
Quanto sta accadendo in Libia assume un colorito decisamente singolare che differenzia l’ex colonia italiana dalle altre realtà nordafricane coinvolte nelle recenti proteste. È cronaca oramai trascorsa quella degli stati arabi che si affacciano sul Mediterraneo ribellatesi dopo decenni di sciagurata tirannia. Gran parte di queste insurrezioni sono avvenute poiché giovani, studenti e lavoratori si sono coalizzati iniziando ad occupare piazze, strade e centri di potere, anche grazie all’uso intelligente dei moderni mezzi di comunicazione come il web e i social network. Talvolta la miccia si è accesa per un brusco aumento del pane piuttosto che d’altri generi alimentari o di primaria necessità.
In Libia la rivolta ha preso il via in parte sulla scia delle altre sommosse arabe, ma soprattutto per la pressione delle potenti tribù locali che per decenni hanno supportato il regime di Muammar Gheddafi e che nel recente si sentivano troppo lontane dagli affari torbidi (ma redditizi) di Tripoli. Tribù e clan che nel secolo scorso, durante la guerra di Libia, diedero del filo da torcere anche alle preparate milizie italiane. Nei fatti sono numerosi i potentati locali che potrebbero ribaltare una volta per sempre il regno del colonnello, che in questi anni è cresciuto in modo smisurato assieme al suo ego, mentre la popolazione era di fatto sempre più isolata e in mano alle cosche sopraccitate.
All’inizio la comunità internazionale era propensa a sciogliere i nodi della matassa con l’uso della diplomazia. Però ciò che nella fase iniziale sembrava una fiammella destinata a spegnersi velocemente si è rivelata invece un incendio. La gravità è determinata proprio dal numero delle tribù presenti nel territorio e dall’evidente decentramento del potere. In pratica è difficile orchestrare un’operazione di “confronto” quando si hanno dinnanzi più interlocutori. Anche se proprio oggi l’Unione Europea ha dichiarato di non riconoscere più Gheddafi come interlocutore ma i ribelli. E, a parte questo, viene da domandarsi: è davvero pensabile che l’Occidente (fino a pochi mesi fa maggior sostenitore del regime) si erga a mediatore di pace e risolutore della crisi?
Nelle principali capitali europee (e statunitensi) da qualche settimana le notti dei governanti sono disturbate da incubi della peggior specie. Il più tremendo (ma reale) è quello che la situazione libica precipiti in una guerra intestina uguale a quella del corno Africa negli anni’90, in Somalia soprattutto. Ed è altresì vero che restare spettatori passivi significa stuzzicare un “fronte caldo” che spalanca le porte all’integralismo islamico. Già, a quelle fazioni politico-religiose che da qualche settimana osservano con interesse gli sviluppi delle rivolte. Inoltre, una crisi durevole potrebbe provocare uno stallo economico che andrebbe ad inficiare il precario stato di salute dell’economia globale.
Tirando le somme di questa sintetica analisi, sono palesi alcuni aspetti. Innanzitutto, la Libia è in uno stato narcotizzante dal 1969, anno della rivoluzione che ha conferito il potere a Gheddafi. Nella realtà, scavalcato il dittatore non ci sono altri interlocutori con cui attuare opzioni di confronto – oltre alle sopramenzionate tribù (che però hanno sempre considerato Gheddafi come un fratello).
Del resto l’impressione più concreta che si assapora è che “il potere” stia lentamente ritornando nelle mani dei capi clan. Una sensazione che diventa sempre più preoccupante. Ciò sarebbe una sorta d’involuzione che porterebbe il Paese indietro di quasi cinquant’anni, in pratica al tempo del golpe del 1969 contro re Idris e la monarchia Senussi.
A quel punto, con chi potrebbe dialogare davvero la comunità internazionale e l’ONU? Una rompicapo da manuale che non promette nulla di buono e che contribuirà di sicuro a rendere ancora più insonni e movimentate le nottate in Occidente…
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