Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso. È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l'uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla tua gente? (Isaia 58, 4-7).
del nostro collaboratore Bartolo Salone
Con il mercoledì delle ceneri inizia la Quaresima, tempo forte dell'anno liturgico, in cui i fedeli sono chiamati con particolare sollecitudine a compiere opere di penitenza, di preghiera e di carità. Oggi, se ancora si riesce a comprendere il senso della carità e a intuire il significato della preghiera, si è smarrito invece quasi del tutto il senso della penitenza. Perché digiunare, perché astenersi dalle carni, perché privarsi di ciò che piace, perché fare fioretti? Si può credere in un Dio e in una religione che sembrano vogliano farci vivere nella ristrettezza e nelle privazioni, soprattutto quando la vita è stata tanto generosa con noi da non farci mancare nulla?
Il digiuno e le penitenze quaresimali sono invero presentate da certa cultura “liberal” come il residuato di una concezione arcaica e involuta della religione, che soffoca sotto i precetti la libertà dell’uomo. In realtà, le pratiche ascetiche mettono a nudo l’insufficienza di un certo modo, tutto moderno, di intendere la libertà. Nella visione cristiana, infatti, non sono le cose materiali ad assicurarci la libertà, per quanto utili possano essere nella vita di ogni giorno. La libertà – quella vera – discende da Dio. La volontaria rinuncia, attraverso le opere penitenziali, ai beni di questo mondo, soprattutto se si tratta di beni superflui, serve dunque a riportarci all’essenziale, cioè alla fede in Dio, e a riconoscere che senza di Lui non può esserci vera libertà. Una libertà senza Dio sarebbe, infatti, una libertà fondata unicamente sulle cose, che oggi ci sono e domani non ci sono più. Una libertà effimera, evanescente, in realtà una parvenza di libertà (anche se dal mondo presentata come la sola libertà possibile).
La penitenza – come ci ricorda il profeta Isaia – non è però un insieme di pratiche esteriori, ma è la disposizione d'animo di chi si mette sinceramente alla ricerca di Dio e, riconoscendo il suo peccato, compie opere di vera autentica conversione. Guai a separare le opere penitenziali dal cammino di conversione, di perfezionamento personale! A nulla servono digiuni, preghiere, mortificazioni corporali se poi non riusciamo a modificare la nostra condotta, se non progrediamo per nulla lungo la via della giustizia. Il digiuno degli ipocriti non è gradito a Dio! Prima ancora di far digiunare il corpo, dobbiamo mettere a digiuno la nostra anima, mortificando la nostra superbia, la nostra avidità, la nostra avarizia, la nostra concupiscenza. Solo così, privata di ciò che è inutile, distrattivo o dannoso, l'anima potrà riempirsi di Dio, suo vero nutrimento.
Le pratiche ascetiche, se eseguite con rettitudine di intenzione e sincerità d'animo, producono frutti squisiti, che possono essere così riassunti: aiutano a rivolgere la nostra attenzione a Dio, facilitando la meditazione; insegnano ad aver il controllo del proprio corpo e dei propri pensieri, dominando i propri impulsi, le proprie passioni, le proprie "perversioni"; ci rendono più sensibili ai dolori e alle sfortune del prossimo (“Chi digiuna comprenda bene cosa significa per gli altri non avere da mangiare. Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno” ammoniva san Pier Crisologo); ci aiutano a vedere le cose nella loro giusta prospettiva, dando più importanza ai valori dello spirito rispetto ai valori materiali ed "economici"; ma soprattutto imprimono il "carattere", quella qualità di cui purtroppo molti cristiani d'oggi mancano, tremando di fronte alle provocazioni o alle dottrine varie e peregrine dei nostri giorni. Come scrisse Paolo VI nella sua prima enciclica: "Non molle e vile è il cristiano, ma forte e fedele". La Quaresima, con la sua triplice ricetta fatta di "preghiera, penitenza e carità", serve proprio a questo. Non viviamo allora questo tempo di grazia con superficialità: è infatti il tempo di ritornare al Signore e di convertire il cuore.
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