del nostro corrispondente da Londra Renato Zilio
Pasqua. Per noi italiani emigrati all’estero è ricordare tutto questo della nostra terra come un tuffo di nostalgia: gli auguri che piovono con gioia, il tempo che si mette sul bello, i paesaggi in fiore che si fanno ammirare, le campane che riprendono a suonare e in tavola le nostre specialità più belle... Ma per noi stessi il senso di Pasqua è altra cosa. A Londra ce l’ha ricordato quest’anno una grandiosa messinscena davanti a migliaia di credenti di varie religioni nella centralissima Trafalgar Square.
Nella capitale inglese, città multiculturale e multireligiosa per eccellenza, si è voluto far rivivere il cuore del messaggio cristiano. Una tragedia e allo stesso tempo una speranza: la passione del Cristo.
Più di 100 personaggi viventi erano attorniati da una folla immensa. Sembrava che tutta la città si fosse girata per contemplare ciò che stava accadendo: una tragedia umana e divina. Quando le forze del male si scatenarono contro un uomo innocente, assaporando quel piacere - seducente e perverso - di vederlo morire, di spegnere il bene e la bontà che lo illuminava.
Poi, paradossalmente, è spuntata un’alba come un filo d’erba, un filo di speranza. Era il terzo giorno, quando per gli ebrei una storia di morte si chiude definitivamente come un sigillo. Invece, no. In un contesto di morte una speranza si è fatta avanti come un germoglio, come un miracolo in mezzo a una tragedia. Una forza nuova venuta da Dio.
In tutto questo ci sembra di rivedere la nostra stessa storia. Emigrare è sempre rompere i propri legami vitali. Quelli più forti e più belli. È veramente morire. Ed è sempre un dramma e, a volte, una tragedia. Ma pian piano la nostra storia si apre alla speranza, si ricostruisce nuovamente, diventa un cammino che avanza insieme ad altri diversi da noi... Celebrare la Pasqua è per noi rivivere il senso di questa nostra avventura. Morte e vita intrecciate insieme.
La nostra storia si ripete e in questi giorni sulle nostre sponde stanno approdando migranti, disperati, volti di uomini e di donne che fuggono. Come il Cristo sulla croce, hanno una sete infinita di dignità, di vivere veramente. Hanno bisogno di una mano tesa, di umanità. Innocenti e schiacciati da forze del male più grandi di loro, rischiano tutto. Come noi ai primi del ‘900, quando vendevamo campi e casa per andare in America, a milioni. Se sapremo dar loro speranza e far crescere in loro il coraggio, allora sì, sarà Pasqua.
Pasqua è quando la speranza attecchisce su un paesaggio di morte, quando la fiducia osa affacciarsi in situazioni disperate. È “quella forza vitale di sperare quando gli altri si rassegnano – ricorda Bonhoeffer - la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé”. Così, con loro la nostra storia di migranti riprende vita. E sarà l’occasione per la nostra Italia di presentarsi come un grande Paese, non una contrada paurosa.
Morte e vita esistono nelle nostre famiglie. A volte, stringendo il braccio di qualche donna emigrata dal Veneto o dalla Sicilia, le dico mentre prega: “Ricordati che sei tu la presenza della Madonna in casa tua”. Lo è per davvero!
Una donna in emigrazione è come la “stabat mater”, colei che rimane in piedi presso la croce, solida come una statua. Segno di speranza e di fiducia, accompagna in emigrazione con pazienza e dignità i contrasti, la solitudine, le contraddizioni e i figli non più suoi, ma di una terra straniera. In una lotta che si fa quotidiana e in cui solo il tempo guarirà le ferite, lei, in piedi, è un vero segno di Dio.
Portare un messaggio di speranza: questa è la vera Pasqua.
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