Ricordo perfettamente la sensazione, (e non potrei qualificarla con un vocabolo adeguato), che mi assalì ad un certo punto della mattina del sei aprile.
Vis - Ricordo anche l’ora, e posso dirlo con certezza perché a quell’ora stavo fumando la mia prima sigaretta dopo 8 mesi di astinenza senza indugi. Erano circa le 11,30 del mattino, dunque ero sveglio da ormai otto ore in un mondo diverso, senza la certezza che avrebbe mai potuto tornare quello che fino alla sera prima avevo conosciuto ed abitato. Riunita la famiglia nella prima ora da quelle tre e trentadue, e gettate le basi di quello che sarebbe stato il nostro accampamento per i successivi quattro mesi, quella sigaretta di consolazione aveva riacceso il rimuginare tipico delle mie «fumate».
Ancora a caldo, bisognava tracciare un bilancio e capire quali fossero le prospettive sul campo. Quali le alternative possibili, quali quelle anche minimamente percorribili. E fu in quel momento che realizzai: la mia vita avrebbe potuto non essere più quella che volevo e che stavo lentamente costruendo fino a poche ore prima. La crudezza di questa constatazione, nel mio caso, non era dettata «solo» dall’aver perso l’uso della casa di famiglia (tutt’ora inagibile), né dall’aver verificato appena due ore prima che la mia città fosse gravemente colpita (solo più tardi avrei visto quanto eufemistica potesse risultare una simile valutazione), né che per i successivi anni avrebbe avuto poco o nulla da offrire agli abitanti.
Tutto, o almeno la maggior parte dello scoramento di quell’attimo, invece, derivava dalla concreta possibilità che non esistesse più il rinomato reparto di Radiologia dove avevo intenzione di preparare la mia tesi e, un giorno, di specializzarmi in quella disciplina.
Avrei dovuto spostarmi chissà dove, fidandomi del giudizio di chissà chi, per trovarmi trapiantato in una realtà che avrei potuto giudicare un «ripiego», una scelta di second’ordine. Insomma, avrei potuto correre il rischio di trovarmi a fare una vita non mia. Avrei potuto anche dover scegliere di non fare più il radiologo e riciclarmi in qualche altro ambito fino al giorno prima fondatamente escluso dalle mie prospettive. Insomma, mi sarei facilmente potuto ritrovare a fare una vita semplicemente non più mia, intraprendendo strade nuove non per scelta, ma per necessità.
Curioso come, a meno di dodici ore da una simile disgrazia, non fossi già più rapito dalla sensazione di impotenza verso la natura e la sua forza distruttrice che ancora attanagliava (e comprensibilmente) molti intorno a me. Non ero spaventato da quello che poteva ancora accadere, ma piuttosto da quello che invece poteva già essere accaduto. A mia insaputa.
Oggi, venti mesi più tardi, capisco ancora di più che quella sensazione era dettata da un presentimento azzeccato; per quanto triste e dura da accettare sia la constatazione che L’Aquila è ridotta ai minimi termini del suo antico (e mai del tutto espresso e tutelato) splendore, nulla è a confronto della consapevolezza che forse la nostra vita qui non potrà seguire il corso che ciascuno si era prefisso per il suo avvenire.
Abbiamo ai nostri piedi i resti di una città che, attraverso i Governi, sarà lentissimamente ricostruita. Una città che difficilmente sarà quella che era, che probabilmente continuerà a perdere, come sta già facendo, centinaia di abitanti e migliaia di studenti universitari. Una città che avrà un’Università sempre più vuota e dai numeri sempre più modesti, nonostante sia questo l’unico fronte su cui, sin dal primo giorno, si sta dando battaglia per risollevarsi. Una città con una popolazione rissosa ed imbelle, chic e cafona, di provincia e cosmopolita. Fatta di tante miserie e di eccezionali slanci virtuosi. Una città divisa e per questo debolissima, capace di vivere il dolore con grande compostezza, di essere «forte e gentile» ma anche tristemente supina ai potenti di turno.
In questi venti mesi posso dire di averne viste di tutti i colori, nella mia città; ho visto aprirsi squarci in casa, voragini per terra, ponti crollare ed il cielo ululare. Ho visto gente vagare quella notte, e la vedo vagare ancora oggi, per le nostre strade, ancora oggi col naso all’insù e gli occhi lucidi, senza pudore per gli sconosciuti che incontrano lungo il cammino. Ho visto i vecchi abbattere transenne sorrette da militari e polizia armata contro noi, a tenerci fuori dalla nostra città. Ho visto concittadini portarsi via porte e finestre, prima che rubassero dalle loro case anche quelle.
Ho dovuto anche avere paura di trovarmi sotto casa all’imbrunire, ché il piazzale, al buio, somiglia troppo a quella notte ed ha un che di sinistro. Ho visto e sentito parlare della mia città in televisione, e la gente accapigliarsi o pontificare di una sua demolizione in toto e ricostruzione in chiave moderna. Che solo così sarebbe davvero sicura, che solo così si farebbe una ricostruzione economicamente sensata.
Ho pensato a quel proposito a che grande spreco di spazio rappresenti al giorno d’oggi il Duomo di Milano: un lotto edificabile in quella posizione può valere miliardi, ed un centro commerciale messo lì farebbe affari d’oro; meglio ancora un secondo «Pirellone», magari in versione condominio di lusso. Mi sono domandato cosa ne penserebbe allora Maurizio Belpietro, se si parlasse così di casa sua.
Mi sono ritrovato ad essere al centro del mondo dacché prima non ci mettevano nemmeno sulle previsioni meteorologiche. Eppure siamo sempre stati capoluogo di Regione. Ho visto la disgrazia abbattersi su di noi, e l’Italia intera venirci ad abbracciare per offrirci un pasto caldo, abiti e coperte. Ho creduto che fosse possibile farcela con uno scatto di reni, con un guizzo di buona volontà, con un minimo di onestà, trasparenza, partecipazione, e che poi il tempo ed il lavoro avrebbero fatto il resto.
Ho dovuto, poi, constatare che resteranno solo belle speranze. Due anni dopo, le sole pietre rimosse le ho tolte insieme a 6000 concittadini con le nostre carriole.
E due piazze sono state sgomberate con due mesi del nostro lavoro. Dopodiché, il nulla. Il vuoto pneumatico, il buco nero di una Ricostruzione che è ancora oggi, di là da venire persino per la periferia dei condomini in cemento armato. Nuove strade per la periferia che esplode, e la fioritura oscena di baraccopoli estemporanee, case provvisorie nelle posizioni più impensabili, in barba a qualunque buon senso.
Il danno si aggiunge quotidianamente al danno. La frustrazione si aggiunge alla mancanza di prospettive certe. Centinaia di persone sono andate via per avere almeno la libertà di scegliere quando tornare ad essere artefici del proprio destino, ed il flusso in uscita da L’Aquila non accenna a diminuire.
All’impegno dei primi mesi dopo il terremoto, con il movimento delle carriole prima e dell’assemblea cittadina poi, ho dovuto dedicare sempre meno tempo. Ho dato gli ultimi esami, mi sono laureato. E sto per cominciare a specializzarmi in Radiologia; la mia buona stella non mi ha abbandonato e non potevo perdere quel treno che, chissà perché, mi ha aspettato in stazione. Destino, forse. L’allontanamento dal movimento cittadino è coinciso, non a caso, con una fase di stagnazione politica locale e nazionale. Nulla, nonostante le nostre quotidiane iniziative, è riuscito a promuovere negli amministratori (di qualunque livello e colore politico) l’idea che la partecipazione fosse una premessa necessaria all’avvio di una ricostruzione sociale e materiale di cui c’è tutt’ora fortemente bisogno. E così la frustrante constatazione del non avere riscontri ha preso il sopravvento.
«Il palazzo» ci resta precluso, le scelte (poche finora in verità, e comunque tutte dannose o improduttive per il benessere comune) sono prese nella assurda pretesa di amministrare con i canoni della normalità una situazione che di normale non ha nulla.
Nonostante persino i cinque luminari chiamati da tutto il mondo a partecipare alla redazione di un piano di ricostruzione per il centro storico abbiano detto alla loro prima apparizione pubblica che senza cittadini, senza il nostro contributo collettivo nulla sarà possibile, le loro parole sono rimaste tali. Anzi, a dire il vero, dopo quell’apparizione su invito degli amministratori locali e dei commissari straordinari designati dal Governo,e soprattutto dopo quelle dichiarazioni ufficiali di intenti sono spariti assieme ai loro buoni propositi.
La sera in cui Fazio e Saviano nei loro celebri elenchi hanno citato L’Aquila, l’uno dicendo pressappoco «vado via perché l’Italia ha perso una città, L’Aquila» e l’altro «resto finché non sarà ricostruita» istantaneamente migliaia di Aquilani, (cittadinanza con un altissimo tasso di informatizzazione post-terremoto, del resto è l’unica forma di comunicazione ed incontro possibile, quando si perde la fruibilità dell’agorà) hanno scritto su Facebook, blog e su altri social network «RESTO», per migliaia di buone, anzi ottime ragioni.
La verità è che due anni dopo, restiamo perché non abbiamo la capacità di andarcene; non ne abbiamo il coraggio o non abbiamo forse ancora raggiunto il limite massimo di sopportazione. Due anni dopo quella sigaretta del sei aprile, posso solo affermare con certezza che resto perché tutto è accaduto. E giorno dopo giorno, rimanendo qui, lo constatiamo; capiamo quanto quei trentotto secondi hanno portato nelle nostre vite e quanto stanno modificando i nostri progetti futuri. Constatiamo, ed aggiungiamo pazientemente al «conto».
Fin quando non sarà troppo anche per noi.
* Stazione MIR – Blogger da L’Aquila
Articolo pubblicato su Volontariato Oggi n. 3 – 2010.
Vis - Ricordo anche l’ora, e posso dirlo con certezza perché a quell’ora stavo fumando la mia prima sigaretta dopo 8 mesi di astinenza senza indugi. Erano circa le 11,30 del mattino, dunque ero sveglio da ormai otto ore in un mondo diverso, senza la certezza che avrebbe mai potuto tornare quello che fino alla sera prima avevo conosciuto ed abitato. Riunita la famiglia nella prima ora da quelle tre e trentadue, e gettate le basi di quello che sarebbe stato il nostro accampamento per i successivi quattro mesi, quella sigaretta di consolazione aveva riacceso il rimuginare tipico delle mie «fumate».
Ancora a caldo, bisognava tracciare un bilancio e capire quali fossero le prospettive sul campo. Quali le alternative possibili, quali quelle anche minimamente percorribili. E fu in quel momento che realizzai: la mia vita avrebbe potuto non essere più quella che volevo e che stavo lentamente costruendo fino a poche ore prima. La crudezza di questa constatazione, nel mio caso, non era dettata «solo» dall’aver perso l’uso della casa di famiglia (tutt’ora inagibile), né dall’aver verificato appena due ore prima che la mia città fosse gravemente colpita (solo più tardi avrei visto quanto eufemistica potesse risultare una simile valutazione), né che per i successivi anni avrebbe avuto poco o nulla da offrire agli abitanti.
Tutto, o almeno la maggior parte dello scoramento di quell’attimo, invece, derivava dalla concreta possibilità che non esistesse più il rinomato reparto di Radiologia dove avevo intenzione di preparare la mia tesi e, un giorno, di specializzarmi in quella disciplina.
Avrei dovuto spostarmi chissà dove, fidandomi del giudizio di chissà chi, per trovarmi trapiantato in una realtà che avrei potuto giudicare un «ripiego», una scelta di second’ordine. Insomma, avrei potuto correre il rischio di trovarmi a fare una vita non mia. Avrei potuto anche dover scegliere di non fare più il radiologo e riciclarmi in qualche altro ambito fino al giorno prima fondatamente escluso dalle mie prospettive. Insomma, mi sarei facilmente potuto ritrovare a fare una vita semplicemente non più mia, intraprendendo strade nuove non per scelta, ma per necessità.
Curioso come, a meno di dodici ore da una simile disgrazia, non fossi già più rapito dalla sensazione di impotenza verso la natura e la sua forza distruttrice che ancora attanagliava (e comprensibilmente) molti intorno a me. Non ero spaventato da quello che poteva ancora accadere, ma piuttosto da quello che invece poteva già essere accaduto. A mia insaputa.
Oggi, venti mesi più tardi, capisco ancora di più che quella sensazione era dettata da un presentimento azzeccato; per quanto triste e dura da accettare sia la constatazione che L’Aquila è ridotta ai minimi termini del suo antico (e mai del tutto espresso e tutelato) splendore, nulla è a confronto della consapevolezza che forse la nostra vita qui non potrà seguire il corso che ciascuno si era prefisso per il suo avvenire.
Abbiamo ai nostri piedi i resti di una città che, attraverso i Governi, sarà lentissimamente ricostruita. Una città che difficilmente sarà quella che era, che probabilmente continuerà a perdere, come sta già facendo, centinaia di abitanti e migliaia di studenti universitari. Una città che avrà un’Università sempre più vuota e dai numeri sempre più modesti, nonostante sia questo l’unico fronte su cui, sin dal primo giorno, si sta dando battaglia per risollevarsi. Una città con una popolazione rissosa ed imbelle, chic e cafona, di provincia e cosmopolita. Fatta di tante miserie e di eccezionali slanci virtuosi. Una città divisa e per questo debolissima, capace di vivere il dolore con grande compostezza, di essere «forte e gentile» ma anche tristemente supina ai potenti di turno.
In questi venti mesi posso dire di averne viste di tutti i colori, nella mia città; ho visto aprirsi squarci in casa, voragini per terra, ponti crollare ed il cielo ululare. Ho visto gente vagare quella notte, e la vedo vagare ancora oggi, per le nostre strade, ancora oggi col naso all’insù e gli occhi lucidi, senza pudore per gli sconosciuti che incontrano lungo il cammino. Ho visto i vecchi abbattere transenne sorrette da militari e polizia armata contro noi, a tenerci fuori dalla nostra città. Ho visto concittadini portarsi via porte e finestre, prima che rubassero dalle loro case anche quelle.
Ho dovuto anche avere paura di trovarmi sotto casa all’imbrunire, ché il piazzale, al buio, somiglia troppo a quella notte ed ha un che di sinistro. Ho visto e sentito parlare della mia città in televisione, e la gente accapigliarsi o pontificare di una sua demolizione in toto e ricostruzione in chiave moderna. Che solo così sarebbe davvero sicura, che solo così si farebbe una ricostruzione economicamente sensata.
Ho pensato a quel proposito a che grande spreco di spazio rappresenti al giorno d’oggi il Duomo di Milano: un lotto edificabile in quella posizione può valere miliardi, ed un centro commerciale messo lì farebbe affari d’oro; meglio ancora un secondo «Pirellone», magari in versione condominio di lusso. Mi sono domandato cosa ne penserebbe allora Maurizio Belpietro, se si parlasse così di casa sua.
Mi sono ritrovato ad essere al centro del mondo dacché prima non ci mettevano nemmeno sulle previsioni meteorologiche. Eppure siamo sempre stati capoluogo di Regione. Ho visto la disgrazia abbattersi su di noi, e l’Italia intera venirci ad abbracciare per offrirci un pasto caldo, abiti e coperte. Ho creduto che fosse possibile farcela con uno scatto di reni, con un guizzo di buona volontà, con un minimo di onestà, trasparenza, partecipazione, e che poi il tempo ed il lavoro avrebbero fatto il resto.
Ho dovuto, poi, constatare che resteranno solo belle speranze. Due anni dopo, le sole pietre rimosse le ho tolte insieme a 6000 concittadini con le nostre carriole.
E due piazze sono state sgomberate con due mesi del nostro lavoro. Dopodiché, il nulla. Il vuoto pneumatico, il buco nero di una Ricostruzione che è ancora oggi, di là da venire persino per la periferia dei condomini in cemento armato. Nuove strade per la periferia che esplode, e la fioritura oscena di baraccopoli estemporanee, case provvisorie nelle posizioni più impensabili, in barba a qualunque buon senso.
Il danno si aggiunge quotidianamente al danno. La frustrazione si aggiunge alla mancanza di prospettive certe. Centinaia di persone sono andate via per avere almeno la libertà di scegliere quando tornare ad essere artefici del proprio destino, ed il flusso in uscita da L’Aquila non accenna a diminuire.
All’impegno dei primi mesi dopo il terremoto, con il movimento delle carriole prima e dell’assemblea cittadina poi, ho dovuto dedicare sempre meno tempo. Ho dato gli ultimi esami, mi sono laureato. E sto per cominciare a specializzarmi in Radiologia; la mia buona stella non mi ha abbandonato e non potevo perdere quel treno che, chissà perché, mi ha aspettato in stazione. Destino, forse. L’allontanamento dal movimento cittadino è coinciso, non a caso, con una fase di stagnazione politica locale e nazionale. Nulla, nonostante le nostre quotidiane iniziative, è riuscito a promuovere negli amministratori (di qualunque livello e colore politico) l’idea che la partecipazione fosse una premessa necessaria all’avvio di una ricostruzione sociale e materiale di cui c’è tutt’ora fortemente bisogno. E così la frustrante constatazione del non avere riscontri ha preso il sopravvento.
«Il palazzo» ci resta precluso, le scelte (poche finora in verità, e comunque tutte dannose o improduttive per il benessere comune) sono prese nella assurda pretesa di amministrare con i canoni della normalità una situazione che di normale non ha nulla.
Nonostante persino i cinque luminari chiamati da tutto il mondo a partecipare alla redazione di un piano di ricostruzione per il centro storico abbiano detto alla loro prima apparizione pubblica che senza cittadini, senza il nostro contributo collettivo nulla sarà possibile, le loro parole sono rimaste tali. Anzi, a dire il vero, dopo quell’apparizione su invito degli amministratori locali e dei commissari straordinari designati dal Governo,e soprattutto dopo quelle dichiarazioni ufficiali di intenti sono spariti assieme ai loro buoni propositi.
La sera in cui Fazio e Saviano nei loro celebri elenchi hanno citato L’Aquila, l’uno dicendo pressappoco «vado via perché l’Italia ha perso una città, L’Aquila» e l’altro «resto finché non sarà ricostruita» istantaneamente migliaia di Aquilani, (cittadinanza con un altissimo tasso di informatizzazione post-terremoto, del resto è l’unica forma di comunicazione ed incontro possibile, quando si perde la fruibilità dell’agorà) hanno scritto su Facebook, blog e su altri social network «RESTO», per migliaia di buone, anzi ottime ragioni.
La verità è che due anni dopo, restiamo perché non abbiamo la capacità di andarcene; non ne abbiamo il coraggio o non abbiamo forse ancora raggiunto il limite massimo di sopportazione. Due anni dopo quella sigaretta del sei aprile, posso solo affermare con certezza che resto perché tutto è accaduto. E giorno dopo giorno, rimanendo qui, lo constatiamo; capiamo quanto quei trentotto secondi hanno portato nelle nostre vite e quanto stanno modificando i nostri progetti futuri. Constatiamo, ed aggiungiamo pazientemente al «conto».
Fin quando non sarà troppo anche per noi.
* Stazione MIR – Blogger da L’Aquila
Articolo pubblicato su Volontariato Oggi n. 3 – 2010.
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