La nostra corrispondente Federica Scorpo prosegue il suo ciclo di interviste a donne che hanno combattuto e combattono ancora oggi la mafia
Siamo oggi con Anna Puglisi, cofondatrice del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (insieme a Umberto Santino) che da anni si occupa del ruolo delle donne nella mafia e nell’antimafia. Il suo contributo è stato riconosciuto anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che l’8 marzo 2008, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, le ha conferito l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, con la seguente motivazione: “Con i suoi studi e la sua attività di raccolta di testimonianze di vita, svolta soprattutto attraverso il Centro siciliano di documentazione intitolato a Giuseppe Impastato, ha valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia”.
D - Innanzitutto grazie per questa sua intervista a La Perfetta Letizia. La nostra rivista è da sempre attenta al tema della mafia, come testimonia la collaborazione con Libera e le diverse testimonianze raccolte in questi anni con chi la mafia la combatte.
Com’è nato il suo interesse e la sua dedizione alla lotta contro la mafia e cosa l’ha spinta a creare il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” e l’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro le organizzazioni mafiose?
R - Avevo militato per qualche anno in un partito politico della Nuova sinistra, dove ho conosciuto mio marito, Umberto Santino, che era uno dei dirigenti da anni impegnato nello studio della mafia. A metà degli anni ’70 decidemmo di concludere la nostra esperienza di lavoro politico all’interno dei partiti, ma non l’impegno sociale che già avevamo sperimentato lavorando in alcuni quartieri degradati della periferia di Palermo. Poiché ritenevamo che fosse inadeguato il livello della ricerca sul fenomeno mafioso, nel 1977 decidemmo di fondare il Centro siciliano di documentazione, con l’intento di impegnarci in un progetto di ricerca che affrontasse la mafia in tutti i suoi aspetti. Ma nei 34 anni trascorsi il nostro impegno è andato al di là della pura ricerca, perchè, oltre ad adoperarci perchè l’omicidio di Peppino Impastato non rimanesse impunito, siamo stati presenti nelle scuole, nelle lotte sociali e per la pace.
Sono anche una delle fondatrici dell’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia, sorta a Palermo nel 1980, la prima associazione di massa contro la mafia, formata da donne già impegnate in altri settori e da donne che avevano subito in prima persona la violenza mafiosa, con l’uccisione dei propri cari. Tra queste ultime c’erano alcune provenienti da quella parte del popolo palermitano tradizionalmente succube dei mafiosi, che hanno saputo rompere con la cultura del silenzio e si sono costituite parte civile nei processi contro gli assassini dei loro parenti. L’associazione, assieme al Centro Impastato, è stata accanto a queste donne che, per la loro scelta, sono andate incontro all’isolamento da parte del loro ambiente. La presidente dell’associazione è stata Giovanna Terranova, vedova del magistrato ucciso nel 1979. Purtroppo da alcuni anni l’Associazione ha interrotto l’attività.
D - Il Centro da lei fondato è stato il primo a sorgere in Italia negli anni ‘80. In che modo contribuisce alla lotta per una cultura della legalità e in che modo si può sostenere questo progetto?
R - Come dicevo il Centro è nato nel 1977 ed è stato il primo Centro “antimafia” sorto in Italia. E’ stato e continua ad essere autofinanziato perché non siamo riusciti ad ottenere dalla Regione siciliana una legge che fissi criteri oggettivi per l’erogazione dei finanziamenti. Si può sostenere il Centro in vari modi, organizzando iniziative per fare conoscere le nostre attività, presentando le nostre pubblicazioni, destinandoci il 5 per mille. Siamo stati i primi a lavorare nelle scuole, dal 1981, in seguito alla legge della Regione siciliana (dopo l’assassinio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella) che prevedeva dei contributi per progetti sulla lotta alla mafia. Allora erano pochissimi i presidi e gli insegnanti sensibili a questo problema o, in ogni caso, disposti a impegnarsi. Noi preferiamo rivolgerci agli insegnanti, perchè riteniamo inadeguata la scelta che spesso viene fatta dalle scuole di limitarsi a qualche ora di incontro degli studenti con un esperto o con un parente di vittima di mafia. Al contrario dovrebbero essere i docenti, che hanno un contatto diretto con gli studenti, ad inserire all’interno dei loro insegnamenti progetti di lavoro su mafia, antimafia e legalità democratica, che partano dalla conoscenza della realtà in cui vivono i ragazzi e dai loro bisogni. Per quanto riguarda la “cultura della legalità”, teniamo ad accompagnare il termine “legalità” con gli aggettivi “democratica” e “costituzionale”. Non è una formalità. Per fare un esempio, anche i provvedimenti contro gli ebrei erano leggi, ma è sacrosanto considerare “giusti” coloro che hanno contravvenuto a quelle leggi, e anche le leggi ad personam del governo Berlusconi dal punto di vista formale sono legali, ma violano il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione.
D - Cosa rappresenta Peppino Impastato per la storia della mafia?
R- Peppino Impastato non fa parte della storia della mafia ma dell’antimafia. E’ fino a oggi un caso unico nella storia della lotta alla mafia perché proveniva da una famiglia mafiosa con cui ha saputo rompere già da ragazzo quindicenne. Gli abbiamo dedicato il Centro per questa sua specificità e per la complessità della sua analisi sulla mafia e del suo modo di lottare contro di essa, condotta a livello culturale, politico, di denuncia, anche usando la satira. Ma l’abbiamo dedicato a lui anche perché fin dal giorno dopo il funerale abbiamo denunciato assieme a pochi altri il depistaggio da parte di organi delle istituzioni. E, assieme alla madre Felicia, al fratello Giovanni e ad alcuni compagni di Cinisi, abbiamo condotto una lotta più che ventennale per avere giustizia per il suo assassinio e mantenerne viva la memoria, infangata da chi lo voleva terrorista e suicida, con varie iniziative a partire dalla prima manifestazione nazionale contro la mafia organizzata nel 1979, nel primo anniversario della sua morte. Siamo riusciti a far riaprire le indagini ogni volta che venivano chiuse, fino ad ottenere le condanne per Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo come mandanti, e la relazione della Commissione parlamentare antimafia sui responsabili del depistaggio.
D - Nel 2005 ha pubblicato un libro scritto con Umberto Santino dal titolo “Cara Felicia”, dedicato a Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato. Ripercorrendo la vita di Felicia, cosa l’ha maggiormente colpita?
R - Il nostro rapporto con Felicia è stato di grande amicizia. Non la conoscevamo e non l’abbiamo vista al funerale, perchè al corteo eravamo tra i tanti accorsi da Palermo. L’abbiamo conosciuta dopo la sua scelta di costituirsi parte civile (allora si poteva fare anche durante la fase istruttoria) e siamo stati conquistati subito dalla sua forza, dalla sua intelligenza e ironia. Felicia ha aperto la sua casa a quanti volessero sapere chi era veramente Peppino, perchè, come ci ha detto quando abbiamo raccolto la sua storia di vita nel libro “La mafia in casa mia”: «Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: “Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise». Parlava soltanto in siciliano, ma si faceva capire da tutti. Era felice quando andavano a trovarla gli studenti a cui raccomandava innanzitutto di studiare, lei che aveva frequentato soltanto le elementari. Diceva che non voleva morire prima di avere avuto giustizia per il figlio. Ormai vecchia e malata ha voluto essere presente al processo per accusare Badalamenti di aver voluto la morte di Peppino. Ci ha lasciato il 7 dicembre del 2004.
D - Cos’è per lei la mafia e in che modo ha toccato la sua vita?
R Posso dare due risposte. Una, formale, è la definizione di mafia di Umberto Santino, che è al centro del progetto di ricerca del Centro: “Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante, ma non l’unica, è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un sistema di rapporti, svolgono attività violente e illegali ma pure formalmente legali, finalizzate all’arricchimento e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, si avvalgono di un codice culturale e godono di un certo consenso sociale”. Per dare una risposta di carattere personale, non posso non pensare al dolore provato per l’uccisione di persone a noi care, come il magistrato Rocco Chinnici e come Libero Grassi, o che sono diventate care dopo la loro morte, come Peppino Impastato. La mia vita, assieme a quella di mio marito, è stata in modo quasi esclusivo impegnata nel lavoro al Centro. Un impegno portato avanti con grande fatica e spesso senza adeguati riconoscimenti. Per molti anni siamo stati isolati per aver dedicato il Centro a Peppino, ma per la sua vicenda possiamo dire di avere vinto, assieme alla madre e al fratello. E sono molto grata al Presidente Napolitano per l’onorificenza che ha voluto conferirmi e che non mi aspettavo. L’ho accettata con gioia, anche perché nella motivazione c’è il riconoscimento per il lavoro del Centro e per l’impegno delle donne che con me hanno dato vita all’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia.
D - Qual è stato il ruolo delle donne nella storia della mafia in Sicilia fino ai nostri giorni?
R - La mafia formalmente è maschilista, come del resto la società in cui è nata, ma c’è stato e c’è un ruolo delle donne anche dentro di essa, come testimoniato sia in passato che negli ultimi anni. Nella lotta contro la mafia le donne sono presenti già dalla fine dell’Ottocento, durante la stagione dei Fasci siciliani: le donne partecipavano e in alcuni paesi c’erano fasci di sole donne. La presenza delle donne è continuata nelle lotte contadine del secondo dopoguerra, durante le quali sono stati uccisi tanti militanti e sindacalisti, e questi delitti sono rimasti impuniti. Di questo periodo voglio ricordare una donna diventata in quegli anni un simbolo e un esempio di grande coraggio: Francesca Serio, madre del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso nel 1955, una donna sola, abbandonata dal marito, che chiese giustizia per suo figlio accusando i suoi assassini. Accanto a lei ci fu Sandro Pertini.
Il testimone di queste lotte è stato preso dall’Associazione delle donne contro la mafia. Il primo atto dell’Associazione è stato un appello, rivolto proprio a Pertini, allora Presidente della Repubblica, e ai presidenti delle regioni meridionali più colpite dal fenomeno mafioso, perché venissero forniti adeguati strumenti alla magistratura e alle forze dell’ordine. L’impegno dell’Associazione è continuato con interventi nelle scuole, con l’organizzazione di dibattiti e manifestazioni, e con il sostegno delle donne che hanno subito la violenza mafiosa, stando vicino a loro nei processi di mafia.
D - Tra le donne vittime della mafia quale ricorda in particolare?
R - Non so fare una graduatoria tra le donne vittime di mafia. La morte di tutte costituisce una ferita nel corpo della società, come quella degli uomini uccisi. Nelle nostre pubblicazioni dedicate alle vittime della mafia, come “L’altra Sicilia” e “L’agenda dell’antimafia”, ricordiamo le vittime di tutte le mafie, anche quelle uccise per errore, per esempio durante una sparatoria tra mafiosi, tra cui molti bambini. Comunque voglio ricordare due vittime giovanissime: Graziella Campagna e Rita Atria. La prima uccisa soltanto perché aveva trovato un’agendina nella tasca della giacca che il mafioso Gerlando Alberti junior, latitante sotto falso nome, aveva portato nella lavanderia dove lei lavorava. L’altra è morta suicida dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, il magistrato a cui aveva denunciato i mafiosi del suo paese e che per lei era diventato come un padre: un atto di disperazione frutto dell’isolamento dopo il trauma della rottura con la madre e la parentela mafiosa. Accanto a lei c’era stata soltanto la cognata Piera Aiello, che l’aveva preceduta collaborando con la giustizia dopo l’assassinio del marito.
D – Secondo lei, cosa dovrebbero sapere le donne della mafia che non sanno? E i giovani?
R - Non credo che le donne delle famiglie mafiose non siano consapevoli dei traffici dei loro congiunti, da cui provengono la loro agiatezza e il loro ruolo sociale. Voglio ricordare cosa diceva una delle prime collaboratrici di giustizia, Serafina Battaglia: «Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo». E sempre di più sono quelle coinvolte in prima persona negli affari di mafia, anche talvolta con incarichi di comando. Non mi pare che il problema stia nel non sapere, sia per le donne che per i giovani. Il problema è che la società dovrebbe essere in grado di dare delle prospettive di vita che non siano legate alla ricerca della ricchezza e del potere con ogni mezzo. E attualmente si va in tutt’altra direzione…
D - Quante donne hanno deciso di collaborare con la giustizia? Cosa direbbe alle donne che si rifiutano di farlo?
R - Il numero delle collaboratrici di giustizia è molto basso, ma prima di Buscetta le donne sono state le uniche a collaborare. Da qualche tempo mi risulta penoso parlare di donne di mafia, perché, malgrado siano ormai molti i mafiosi in carcere, solo pochissime donne delle loro famiglie hanno ritenuto di collaborare con i magistrati, e soltanto dopo essere state incriminate. Le più note sono Giusy Vitale, di una famiglia mafiosa di Partinico, che dopo l’arresto dei suoi fratelli per un certo periodo prese la direzione della famiglia, ordinando anche un omicidio, e Carmela Iuculano, che aveva fatto da tramite tra il marito arrestato e gli altri mafiosi della cosca. Entrambe hanno spiegato la loro scelta con l’amore per i loro figli. Il caso della Iuculano assume una notevole importanza per il ruolo avuto dalle figlie, determinate a tentare di convincere i genitori a rompere il legame con la mafia per costruire un avvenire diverso per loro e per il loro fratellino. Ci sono riuscite con la madre ma non con il padre. Queste due ragazzine sono state bravissime. Il loro esempio dimostra che il lavoro fatto nelle scuole, anche se il più delle volte è rituale, può dare buoni frutti.
D - Ci sarà un momento in cui potremmo dire: “Peppino, abbiamo sconfitto la mafia in Sicilia”?
R - La mafia e le organizzazioni di tipo mafioso non sono soltanto in Sicilia. In Sicilia, ma anche in altre regioni, molti criminali sono in galera, ma il sistema di relazioni per cui la mafia è stata ed è così forte, cioè l’insieme di professionisti, imprenditori, politici, uomini delle istituzioni collusi, che formano quella che Umberto Santino ha chiamato “borghesia mafiosa”, è ben lontano dall’essere colpito. Ancora non c’è una legge che escluda la candidatura alle elezioni per persone di cui è notoria la vicinanza a mafiosi, anche se non perseguibili penalmente. Questa è una responsabilità dei politici, ma non si può non sottolineare la responsabilità di chi ha votato uomini già condannati o incriminati per mafia. Da qualche anno si sono avuti alcuni risultati nella lotta al racket, ma non c’è ancora una consapevolezza diffusa. Sono pochi i commercianti e gli imprenditori che si sono ribellati uscendo allo scoperto.
Non so se e quando la mafia potrà essere sconfitta, e, vista la mia età, sono certa che non avverrà durante la mia vita. Ciò non esclude che bisogna ugualmente impegnarsi, anche soltanto per dignità personale.
Grazie per la sua testimonianza. E grazie per il lavoro che svolge con passione e tenacia col suo Centro*: è solo ricordando e tenendo viva la memoria che è possibile sconfiggere la mafia, sotto l’aspetto culturale prima ancora che su quello ‘militare’.
*Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” - Via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo
Tel. +39 91.6259789, fax +39 91.7301490 - e.mail: csdgi@tin.it - sito: www.centroimpastato.it
Il Centro è totalmente autofinanziato poiché contesta le pratiche clientelari di erogazione del denaro pubblico. Per sostenere l’attività del centro, iniziata nel 1977, puoi donare il 5xmille al Centro, indicando il suo codice fiscale: 02446520823
Siamo oggi con Anna Puglisi, cofondatrice del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (insieme a Umberto Santino) che da anni si occupa del ruolo delle donne nella mafia e nell’antimafia. Il suo contributo è stato riconosciuto anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che l’8 marzo 2008, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, le ha conferito l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, con la seguente motivazione: “Con i suoi studi e la sua attività di raccolta di testimonianze di vita, svolta soprattutto attraverso il Centro siciliano di documentazione intitolato a Giuseppe Impastato, ha valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia”.
D - Innanzitutto grazie per questa sua intervista a La Perfetta Letizia. La nostra rivista è da sempre attenta al tema della mafia, come testimonia la collaborazione con Libera e le diverse testimonianze raccolte in questi anni con chi la mafia la combatte.
Com’è nato il suo interesse e la sua dedizione alla lotta contro la mafia e cosa l’ha spinta a creare il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” e l’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro le organizzazioni mafiose?
R - Avevo militato per qualche anno in un partito politico della Nuova sinistra, dove ho conosciuto mio marito, Umberto Santino, che era uno dei dirigenti da anni impegnato nello studio della mafia. A metà degli anni ’70 decidemmo di concludere la nostra esperienza di lavoro politico all’interno dei partiti, ma non l’impegno sociale che già avevamo sperimentato lavorando in alcuni quartieri degradati della periferia di Palermo. Poiché ritenevamo che fosse inadeguato il livello della ricerca sul fenomeno mafioso, nel 1977 decidemmo di fondare il Centro siciliano di documentazione, con l’intento di impegnarci in un progetto di ricerca che affrontasse la mafia in tutti i suoi aspetti. Ma nei 34 anni trascorsi il nostro impegno è andato al di là della pura ricerca, perchè, oltre ad adoperarci perchè l’omicidio di Peppino Impastato non rimanesse impunito, siamo stati presenti nelle scuole, nelle lotte sociali e per la pace.
Sono anche una delle fondatrici dell’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia, sorta a Palermo nel 1980, la prima associazione di massa contro la mafia, formata da donne già impegnate in altri settori e da donne che avevano subito in prima persona la violenza mafiosa, con l’uccisione dei propri cari. Tra queste ultime c’erano alcune provenienti da quella parte del popolo palermitano tradizionalmente succube dei mafiosi, che hanno saputo rompere con la cultura del silenzio e si sono costituite parte civile nei processi contro gli assassini dei loro parenti. L’associazione, assieme al Centro Impastato, è stata accanto a queste donne che, per la loro scelta, sono andate incontro all’isolamento da parte del loro ambiente. La presidente dell’associazione è stata Giovanna Terranova, vedova del magistrato ucciso nel 1979. Purtroppo da alcuni anni l’Associazione ha interrotto l’attività.
D - Il Centro da lei fondato è stato il primo a sorgere in Italia negli anni ‘80. In che modo contribuisce alla lotta per una cultura della legalità e in che modo si può sostenere questo progetto?
R - Come dicevo il Centro è nato nel 1977 ed è stato il primo Centro “antimafia” sorto in Italia. E’ stato e continua ad essere autofinanziato perché non siamo riusciti ad ottenere dalla Regione siciliana una legge che fissi criteri oggettivi per l’erogazione dei finanziamenti. Si può sostenere il Centro in vari modi, organizzando iniziative per fare conoscere le nostre attività, presentando le nostre pubblicazioni, destinandoci il 5 per mille. Siamo stati i primi a lavorare nelle scuole, dal 1981, in seguito alla legge della Regione siciliana (dopo l’assassinio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella) che prevedeva dei contributi per progetti sulla lotta alla mafia. Allora erano pochissimi i presidi e gli insegnanti sensibili a questo problema o, in ogni caso, disposti a impegnarsi. Noi preferiamo rivolgerci agli insegnanti, perchè riteniamo inadeguata la scelta che spesso viene fatta dalle scuole di limitarsi a qualche ora di incontro degli studenti con un esperto o con un parente di vittima di mafia. Al contrario dovrebbero essere i docenti, che hanno un contatto diretto con gli studenti, ad inserire all’interno dei loro insegnamenti progetti di lavoro su mafia, antimafia e legalità democratica, che partano dalla conoscenza della realtà in cui vivono i ragazzi e dai loro bisogni. Per quanto riguarda la “cultura della legalità”, teniamo ad accompagnare il termine “legalità” con gli aggettivi “democratica” e “costituzionale”. Non è una formalità. Per fare un esempio, anche i provvedimenti contro gli ebrei erano leggi, ma è sacrosanto considerare “giusti” coloro che hanno contravvenuto a quelle leggi, e anche le leggi ad personam del governo Berlusconi dal punto di vista formale sono legali, ma violano il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione.
D - Cosa rappresenta Peppino Impastato per la storia della mafia?
R- Peppino Impastato non fa parte della storia della mafia ma dell’antimafia. E’ fino a oggi un caso unico nella storia della lotta alla mafia perché proveniva da una famiglia mafiosa con cui ha saputo rompere già da ragazzo quindicenne. Gli abbiamo dedicato il Centro per questa sua specificità e per la complessità della sua analisi sulla mafia e del suo modo di lottare contro di essa, condotta a livello culturale, politico, di denuncia, anche usando la satira. Ma l’abbiamo dedicato a lui anche perché fin dal giorno dopo il funerale abbiamo denunciato assieme a pochi altri il depistaggio da parte di organi delle istituzioni. E, assieme alla madre Felicia, al fratello Giovanni e ad alcuni compagni di Cinisi, abbiamo condotto una lotta più che ventennale per avere giustizia per il suo assassinio e mantenerne viva la memoria, infangata da chi lo voleva terrorista e suicida, con varie iniziative a partire dalla prima manifestazione nazionale contro la mafia organizzata nel 1979, nel primo anniversario della sua morte. Siamo riusciti a far riaprire le indagini ogni volta che venivano chiuse, fino ad ottenere le condanne per Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo come mandanti, e la relazione della Commissione parlamentare antimafia sui responsabili del depistaggio.
D - Nel 2005 ha pubblicato un libro scritto con Umberto Santino dal titolo “Cara Felicia”, dedicato a Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato. Ripercorrendo la vita di Felicia, cosa l’ha maggiormente colpita?
R - Il nostro rapporto con Felicia è stato di grande amicizia. Non la conoscevamo e non l’abbiamo vista al funerale, perchè al corteo eravamo tra i tanti accorsi da Palermo. L’abbiamo conosciuta dopo la sua scelta di costituirsi parte civile (allora si poteva fare anche durante la fase istruttoria) e siamo stati conquistati subito dalla sua forza, dalla sua intelligenza e ironia. Felicia ha aperto la sua casa a quanti volessero sapere chi era veramente Peppino, perchè, come ci ha detto quando abbiamo raccolto la sua storia di vita nel libro “La mafia in casa mia”: «Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: “Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise». Parlava soltanto in siciliano, ma si faceva capire da tutti. Era felice quando andavano a trovarla gli studenti a cui raccomandava innanzitutto di studiare, lei che aveva frequentato soltanto le elementari. Diceva che non voleva morire prima di avere avuto giustizia per il figlio. Ormai vecchia e malata ha voluto essere presente al processo per accusare Badalamenti di aver voluto la morte di Peppino. Ci ha lasciato il 7 dicembre del 2004.
D - Cos’è per lei la mafia e in che modo ha toccato la sua vita?
R Posso dare due risposte. Una, formale, è la definizione di mafia di Umberto Santino, che è al centro del progetto di ricerca del Centro: “Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante, ma non l’unica, è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un sistema di rapporti, svolgono attività violente e illegali ma pure formalmente legali, finalizzate all’arricchimento e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, si avvalgono di un codice culturale e godono di un certo consenso sociale”. Per dare una risposta di carattere personale, non posso non pensare al dolore provato per l’uccisione di persone a noi care, come il magistrato Rocco Chinnici e come Libero Grassi, o che sono diventate care dopo la loro morte, come Peppino Impastato. La mia vita, assieme a quella di mio marito, è stata in modo quasi esclusivo impegnata nel lavoro al Centro. Un impegno portato avanti con grande fatica e spesso senza adeguati riconoscimenti. Per molti anni siamo stati isolati per aver dedicato il Centro a Peppino, ma per la sua vicenda possiamo dire di avere vinto, assieme alla madre e al fratello. E sono molto grata al Presidente Napolitano per l’onorificenza che ha voluto conferirmi e che non mi aspettavo. L’ho accettata con gioia, anche perché nella motivazione c’è il riconoscimento per il lavoro del Centro e per l’impegno delle donne che con me hanno dato vita all’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia.
D - Qual è stato il ruolo delle donne nella storia della mafia in Sicilia fino ai nostri giorni?
R - La mafia formalmente è maschilista, come del resto la società in cui è nata, ma c’è stato e c’è un ruolo delle donne anche dentro di essa, come testimoniato sia in passato che negli ultimi anni. Nella lotta contro la mafia le donne sono presenti già dalla fine dell’Ottocento, durante la stagione dei Fasci siciliani: le donne partecipavano e in alcuni paesi c’erano fasci di sole donne. La presenza delle donne è continuata nelle lotte contadine del secondo dopoguerra, durante le quali sono stati uccisi tanti militanti e sindacalisti, e questi delitti sono rimasti impuniti. Di questo periodo voglio ricordare una donna diventata in quegli anni un simbolo e un esempio di grande coraggio: Francesca Serio, madre del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso nel 1955, una donna sola, abbandonata dal marito, che chiese giustizia per suo figlio accusando i suoi assassini. Accanto a lei ci fu Sandro Pertini.
Il testimone di queste lotte è stato preso dall’Associazione delle donne contro la mafia. Il primo atto dell’Associazione è stato un appello, rivolto proprio a Pertini, allora Presidente della Repubblica, e ai presidenti delle regioni meridionali più colpite dal fenomeno mafioso, perché venissero forniti adeguati strumenti alla magistratura e alle forze dell’ordine. L’impegno dell’Associazione è continuato con interventi nelle scuole, con l’organizzazione di dibattiti e manifestazioni, e con il sostegno delle donne che hanno subito la violenza mafiosa, stando vicino a loro nei processi di mafia.
D - Tra le donne vittime della mafia quale ricorda in particolare?
R - Non so fare una graduatoria tra le donne vittime di mafia. La morte di tutte costituisce una ferita nel corpo della società, come quella degli uomini uccisi. Nelle nostre pubblicazioni dedicate alle vittime della mafia, come “L’altra Sicilia” e “L’agenda dell’antimafia”, ricordiamo le vittime di tutte le mafie, anche quelle uccise per errore, per esempio durante una sparatoria tra mafiosi, tra cui molti bambini. Comunque voglio ricordare due vittime giovanissime: Graziella Campagna e Rita Atria. La prima uccisa soltanto perché aveva trovato un’agendina nella tasca della giacca che il mafioso Gerlando Alberti junior, latitante sotto falso nome, aveva portato nella lavanderia dove lei lavorava. L’altra è morta suicida dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, il magistrato a cui aveva denunciato i mafiosi del suo paese e che per lei era diventato come un padre: un atto di disperazione frutto dell’isolamento dopo il trauma della rottura con la madre e la parentela mafiosa. Accanto a lei c’era stata soltanto la cognata Piera Aiello, che l’aveva preceduta collaborando con la giustizia dopo l’assassinio del marito.
D – Secondo lei, cosa dovrebbero sapere le donne della mafia che non sanno? E i giovani?
R - Non credo che le donne delle famiglie mafiose non siano consapevoli dei traffici dei loro congiunti, da cui provengono la loro agiatezza e il loro ruolo sociale. Voglio ricordare cosa diceva una delle prime collaboratrici di giustizia, Serafina Battaglia: «Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo». E sempre di più sono quelle coinvolte in prima persona negli affari di mafia, anche talvolta con incarichi di comando. Non mi pare che il problema stia nel non sapere, sia per le donne che per i giovani. Il problema è che la società dovrebbe essere in grado di dare delle prospettive di vita che non siano legate alla ricerca della ricchezza e del potere con ogni mezzo. E attualmente si va in tutt’altra direzione…
D - Quante donne hanno deciso di collaborare con la giustizia? Cosa direbbe alle donne che si rifiutano di farlo?
R - Il numero delle collaboratrici di giustizia è molto basso, ma prima di Buscetta le donne sono state le uniche a collaborare. Da qualche tempo mi risulta penoso parlare di donne di mafia, perché, malgrado siano ormai molti i mafiosi in carcere, solo pochissime donne delle loro famiglie hanno ritenuto di collaborare con i magistrati, e soltanto dopo essere state incriminate. Le più note sono Giusy Vitale, di una famiglia mafiosa di Partinico, che dopo l’arresto dei suoi fratelli per un certo periodo prese la direzione della famiglia, ordinando anche un omicidio, e Carmela Iuculano, che aveva fatto da tramite tra il marito arrestato e gli altri mafiosi della cosca. Entrambe hanno spiegato la loro scelta con l’amore per i loro figli. Il caso della Iuculano assume una notevole importanza per il ruolo avuto dalle figlie, determinate a tentare di convincere i genitori a rompere il legame con la mafia per costruire un avvenire diverso per loro e per il loro fratellino. Ci sono riuscite con la madre ma non con il padre. Queste due ragazzine sono state bravissime. Il loro esempio dimostra che il lavoro fatto nelle scuole, anche se il più delle volte è rituale, può dare buoni frutti.
D - Ci sarà un momento in cui potremmo dire: “Peppino, abbiamo sconfitto la mafia in Sicilia”?
R - La mafia e le organizzazioni di tipo mafioso non sono soltanto in Sicilia. In Sicilia, ma anche in altre regioni, molti criminali sono in galera, ma il sistema di relazioni per cui la mafia è stata ed è così forte, cioè l’insieme di professionisti, imprenditori, politici, uomini delle istituzioni collusi, che formano quella che Umberto Santino ha chiamato “borghesia mafiosa”, è ben lontano dall’essere colpito. Ancora non c’è una legge che escluda la candidatura alle elezioni per persone di cui è notoria la vicinanza a mafiosi, anche se non perseguibili penalmente. Questa è una responsabilità dei politici, ma non si può non sottolineare la responsabilità di chi ha votato uomini già condannati o incriminati per mafia. Da qualche anno si sono avuti alcuni risultati nella lotta al racket, ma non c’è ancora una consapevolezza diffusa. Sono pochi i commercianti e gli imprenditori che si sono ribellati uscendo allo scoperto.
Non so se e quando la mafia potrà essere sconfitta, e, vista la mia età, sono certa che non avverrà durante la mia vita. Ciò non esclude che bisogna ugualmente impegnarsi, anche soltanto per dignità personale.
Grazie per la sua testimonianza. E grazie per il lavoro che svolge con passione e tenacia col suo Centro*: è solo ricordando e tenendo viva la memoria che è possibile sconfiggere la mafia, sotto l’aspetto culturale prima ancora che su quello ‘militare’.
*Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” - Via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo
Tel. +39 91.6259789, fax +39 91.7301490 - e.mail: csdgi@tin.it - sito: www.centroimpastato.it
Il Centro è totalmente autofinanziato poiché contesta le pratiche clientelari di erogazione del denaro pubblico. Per sostenere l’attività del centro, iniziata nel 1977, puoi donare il 5xmille al Centro, indicando il suo codice fiscale: 02446520823
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