giovedì, aprile 14, 2011
I disordini in Medio Oriente e Nord Africa stanno causando un nuovo shock energetico e costringono gli Stati Uniti a guardare a fonti alternative. Il presidente Barack Obama dichiara di voler ridurre le importazioni di petrolio e guarda alle fonti rinnovabili. Intanto crescono gli investimenti nel mercato del gas naturale.

di Maurita Cardone

Qualenergia
- I fatti che in questa prima parte del 2011 stanno trasformando la geografia politica del Medio Oriente e del Nord Africa costringono gli Stati Uniti ad aprire una seria riflessione sulla sicurezza energetica. In un paese che importa circa il 50% del proprio petrolio (vedi grafico a destra), fonte da cui si ricava poco meno del 40% dell’energia, la questione approvvigionamenti e la dipendenza dall’estero sono argomenti cruciali. Nel 2009 gli Stati Uniti hanno importato 11,7 milioni di barili al giorno tra greggio e prodotti raffinati (e hanno esportato 2 milioni di barili). Di questi il 51% viene da paesi occidentali, soprattutto Canada, Venezuela e Messico, mentre il restante 49% arriva da Arabia Saudita, Africa e Golfo Persico (fonte: Us Energy Information Administration). Sono queste le zone che al momento destano preoccupazione, tanto che, da quando sono iniziati i disordini nell’area, il prezzo della benzina per i consumatori americani è cresciuto dai 2,70 dollari a gallone di gennaio ai quasi 4 dollari toccati in questi giorni in diversi Stati della West Coast (vedi grafico).

Il panico scatenato dai disordini libici sui mercati globali non è tanto dovuto all’importanza delle risorse di quel paese, quanto ai timori che l’instabilità possa estendersi a zone più strategiche come gli Emirati Arabi Uniti. I fatti di queste settimane evidenziano la fragilità di un sistema legato alla geopolitica di una delle zone più calde del Pianeta. Naturale, quindi, che commentatori e politici inizino a chiedersi se gli Stati Uniti possano fare a meno del petrolio mediorientale ed emanciparsi da una dipendenza troppo spesso scomoda.

Il presidente Obama ha di recente approfittato di un incontro con i lavoratori di una fabbrica di turbine eoliche, per annunciare l’intenzione di ridurre di un terzo la dipendenza americana dalle importazioni di petrolio nei prossimi 10 anni. “Non possiamo continuare a passare da fasi di shock quando i prezzi salgono, a fasi di trance quando tornano a ridursi – ha detto Obama – Non possiamo affrettarci a proporre azioni quando i prezzi vanno su per poi schiacciare il bottone di snooze quando scendono di nuovo”. Una metafora con la quale il presidente ha voluto ricordare agli americani che emanciparsi dal petrolio mediorientale significa migliorare l’efficienze energetica nel settore automobilistico e nell’edilizia e allo stesso tempo sviluppare fonti alternative. Nel corso dello stesso discorso, infatti, Obama ha dichiarato di voler raddoppiare la quantità di energia prodotta da rinnovabili entro il 2035.

La storia degli Stati Uniti, in questi giorni lo hanno ricordato molti commentatori, è periodicamente segnata da allarmi sulla sicurezza energetica e appelli alla riduzione delle importazioni. Ogni crisi mediorientale è stata accompagnata da dichiarazioni del presidente di turno, da Nixon a George W. Bush, che prometteva una progressiva diminuzione del ricorso al petrolio estero. Per gli americani è una storia già sentita. Ma l’indipendenza energetica, seppure parziale, non è un obbiettivo dietro l’angolo per gli Usa. Secondo alcuni analisti l’obbiettivo è realizzabile attraverso il ricorso a paesi amici come Canada e Brasile che oggi sarebbero in grado di compensare grossa parte dei bisogni petroliferi americani. Va tuttavia detto che, dal momento che il petrolio è scambiato su un mercato totalmente globalizzato, il fatto che un paese acquisti il suo petrolio da un’area o da un’altra, è relativamente indifferente perché il mercato nel suo complesso risentirà di ogni oscillazione, ovunque questa sia stata generata.

L’argomento però non perde popolarità negli Usa e l’amministrazione Obama, come le precedenti, sembra decisa a cavalcarlo. Il ministro dell’energia, Steven Chu, ha chiaramente espresso l’intenzione di ridurre le importazioni: “Possiamo dimezzare le nostre importazioni in 20 anni? Sì, c’è una reale possibilità di riuscirci”, ha dichiarato. Ma perché questo avvenga, lo scenario energetico americano dovrebbe subire una vera trasformazione, a livello politico e tecnologico, sia in termini di consumi che di produzione. Sarà necessario guardare a nuove fonti, cercare delle alternative energetiche.

Fino a poche settimane fa il nucleare sarebbe stato l’opzione numero uno per l’amministrazione. Ma, dopo i fatti giapponesi, i cittadini sono preoccupati e quasi ogni giorno nelle principali città americane vengono organizzate proteste antinucleare.

Le rinnovabili, d’altra parte, devono vedersela con nemici interni. All’annuncio di voler raddoppiare la produzione di energia da rinnovabili (che in 15 anni non è certo un’impresa impossibile) sono seguite le reazioni del Congresso: “È tempo che il presidente faccia i conti con tutte quelle persone che sono rimaste disoccupate a causa della sua decisione di interrompere lo sviluppo del petrolio e del gas nel Golfo del Messico – ha detto il senatore repubblicano John Barrasso, del Comitato per l’Energia e le risorse naturali – Qualsiasi ragionamento economico oggi dovrebbe prevedere una sincera discussione su come le politiche di Obama abbiamo reso difficile per molti americani trovare e mantenere un lavoro nel settore energetico”.

Il presidente ha quindi dovuto chiarire: “Non c’è niente che non va nel petrolio – ha detto – Ma quando possiedi solo il 2-3 per cento delle riserve mondiali di petrolio, perché non dovresti voler sviluppare fonti di energia alternativa che sono più pulite, più efficienti e che producono lavoro?”.

Da questo scontro petrolio-rinnovabili finisce per beneficiare il gas naturale che sempre più gli esperti indicano come settore chiave per il futuro energetico statunitense. Secondo le ultime previsioni di ExxonMobil sullo sviluppo del mercato globale dell’energia, entro il 2030 il gas naturale sostituirà il carbone come principale fonte per l’energia elettrica. I più importanti nomi del petrolio, tra cui la Exxon stessa, Bp e Shell, stanno investendo miliardi di dollari nell’industria del gas naturale e le crescenti disponibilità di questa risorsa stanno facendo abbassare i prezzi (nelle ultime settimane tuttavia la crisi libica ha fatto crescere di nuovo i prezzi, dal momento che il mercato del gas e quello del petrolio sono ancora strettamente legati) e creando un mercato sempre più competitivo.

Per gli Stati Uniti queste sono ottime notizie perché le riserve individuate di recente potrebbero consentire al paese non soltanto di coprire il proprio fabbisogno, ma anche di diventare un importante esportatore di gas a livello mondiale. Le cattive notizie, come al solito, sono invece per l’ambiente, perché la nuova tecnologia utilizzata per estrarre il gas naturale e i nuovi giacimenti scoperti in tutto il mondo pongono serie minacce per gli ecosistemi che ospitano i pozzi.

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